Non c'è solo il cinema che va da un inizio a una fine, raccontando una storia. Il tempo lineare, lo spazio conosciuto, la vita che ha una meta inevitabile, uno scopo. C'è anche Lo zio Boonmee, dove il tempo si dilata e si riavvolge, la realtà è come espansa (contiene anche tutto ciò che la supera e la precede), i vivi convivono coi morti, i fantasmi si presentano a cena, le principesse vengono possedute da pesci parlanti, gli uomini si trasformano in esseri misteriosi dagli occhi fiammeggianti. L'uomo ammalato, lo zio “protagonista”, è solo un pretesto, uno degli innumerevoli possibili – uomini, animali, alberi, rocce, spiriti, elementi – destinato presto a sprofondare nella mutevole eternità da cui era emerso. Le anime trasmigrano, e un monaco buddhista esce di casa mentre il suo corpo rimane a guardare la tv. Profonda Thailandia. Arcaico Oriente occidentalizzato. Cinema che va guardato col terzo occhio (anche il quarto o il quinto). Sensuale e spirituale - materialista e animista – talmente “altro” da risultare alieno, ma così denso che si può quasi toccare.