«Una volta, qualcuno mi ha detto: “La verità è in tutto, e anche nell’errore”». A pronunciare queste parole è Nanà Kleinfrankheim, interpretata da una bellissima Anna Karina in Questa è la mia vita di Godard. E proprio alla musa del regista francese e, in generale, dell’intera nouvelle vague il Bergamo Film Meeting appena concluso ha dedicato un’ampia e ricca retrospettiva. Poter vedere in sala capolavori come Bande á part o Roulette cinese è stato senza dubbio un privilegio, ma l’aver potuto incontrare la stessa Anna Karina è stato un evento unico e indimenticabile. L’incontro con l’attrice danese-francese è stato condotto da Olivier Seguret, giornalista e critico cinematografico.
Come sei arrivata al mondo del cinema?
Alla fine degli anni ’50 mi trovavo a Parigi. Ero una grande appassionata di fotografia e lavoravo per Elle, occupazione che mi permetteva di guadagnare qualche soldo e rimanere in città. Avevo calcolato che grazie ai miei scatti, mangiando solo un sandwich al giorno, potevo restare a Parigi per tre anni. Non male, pensavo. Ero anche in contatto con il regista Carl Theodore Drayer, che in quegli anni lavorava come corrispondente di un giornale danese a Parigi, quotidiano per il quale pure io scrissi diversi articoli. In questo periodo avvenne un incontro molto importante: mi trovavo al Cafè de Flore e stavo parlando in inglese con la truccatrice di Elle. Le stavo dicendo che mi sarebbe piaciuto molto fare l’attrice e, all’improvviso, mi si avvicinò una signora chiedendomi come mi chiamassi. Imbarazzata, risposi con il mio nome di battesimo: Hanna Karin Blarke Bayer. In tono autoritario, quasi militare, mi disse che, d’ora in poi, mi sarei chiamata solo Anna Karina. Quella signora era Coco Chanel. All’epoca non sapevo bene chi fosse, avevo solo 17 anni, ma decisi di condividere quel consiglio così importante e perentorio.
A proposito di Dreyer, come l’hai conosciuto?
L’ho incontrato prima dell’esperienza parigina, quando ero ancora in Danimarca, grazie a mia madre. Era una sarta e aveva un piccolo negozio, in cui faceva vestiti su commissione. Ricordo che la moglie di Drayer si fece fare un abito proprio da mio madre e lo conobbi per la prima volta nella bottega di famiglia. Ci prese subito in simpatia tanto che, anni dopo, chiese a mia madre se voleva realizzare i costumi per Gertrud, il suo ultimo film, e lei acconsentì. La nostra conoscenza, però, divenne più intima a Parigi. Ricordo che quando veniva in città, io e Jean-Luc Godard lo passavamo a prendere, anche se parlava perfettamente il francese, come testimoniato da La Passione di Giovanna D’Arco. Nonostante questa abilità linguistica, quando parlava in pubblico voleva sempre che fossi io a tradurre le sue parole. In generale, posso dirvi che era una persona divertente e amava la nouvelle vague.
Hai accennato alla presenza di Jean-Luc Godard, regista con il quale hai lavorato per molto tempo. Insieme avete dato vita a film memorabili, veri capolavori. Ci puoi dire qualcosa di più circa la vostra collaborazione?
In Godard il cinema è inscindibile dalla vita. Sono due aspetti inseparabili, legati e profondamente connessi. Per quanto riguarda il nostro rapporto, posso dire che era speciale. Ci capivamo al volo, bastava un’occhiata e il gioco era fatto: non mi dava indicazioni rigide e precise su come comportarmi durante le riprese ‒ anche perché non c’era una sceneggiatura e le battute ci venivano consegnata la mattina stessa. Seppur abbia vestito i panni di personaggi estremamente diversi tra loro, ho sempre messo tutta me stesse nelle riprese, interpretandoli con il mio cuore e la mia sensibilità. Questo piaceva a Godard e proprio su questo si creò un’intesa perfetta. In verità, non ci rendevamo pienamente conto di quello che stava succedendo, eravamo molto più vivi e liberi di adesso e ci divertivamo molto.
Primo ho accennato all’assenza di una sceneggiatura pianificata. Ecco, questo non significa che potevamo improvvisare, anzi, non si poteva cambiare nulla di quello che Godard ci dava, tranne in pochi casi. Uno di questi è contenuto ad esempio in Il bandito delle 11, quando cammino sulla spiaggia: Jean mi disse semplicemente di passeggiare e lanciare qualche sasso nel mare, mentre io decisi di improvvisare qualche battuta e a lui la cosa piacque moltissimo.
Hai lavorato anche con Fassbinder, com’è stato?
Lavorare con Fassbinder è stato interessante. Peccato che durante le riprese di Roulette cinese, all’improvviso lui se ne andò a Cannes per due settimane, lasciandoci stupefatti. Poi ovviamente tornò. Come tutti i grandi cineasti, però, Fassbinder aveva qualcosa di perverso, e questo aspetto non mi piaceva, mi metteva in difficoltà. E siccome quando una cosa non mi piace me lo si legge in faccia, a un certo punto la relazione con lui divenne complicata. Aveva anche uno strano rapporto con gli attori, molto aggressivo, cosa che facevo fatica ad affrontare.