Quasi vent’anni dopo Marius e Jeannette, favola su una pittoresca e travagliata storia d’amore che non rinuncia ai toni della commedia, Robert Guédiguian, sembra essersi lasciato alle spalle quell’umorismo sentimentale, brillante, colorato ed esplosivo che lo portò alla consacrazione internazionale.
Il regista, al quale il Bergamo Film Meeting ha dedicato un’ampia e ricca rassegna personale nel 2013, culminata nella pubblicazione di un libro monografico con testi originali, interviste e saggi critici, presenta proprio a Bergamo, in anteprima nazionale, il suo nuovo lavoro: Une histoire de fou.
Dopo L’armée du crime e Le voyage en Arménie, Guédiguian torna a raccontare le sofferenze e le contraddizioni del popolo armeno con uno sguardo disincantato e attento, incentrato, per usare le parole di Victor Hugo, alla “povera gente” a tutti quegli esuli della Storia la cui voce viene continuamente anestetizzata e imprigionata nel carcere dell’oblio. Ed è proprio sulla dimenticanza e la fattualità del ricordo che il regista francese decide di concentrarsi: nel lungo prologo del film, ambientato a Berlino nel 1921, viene raccontato il brutale omicidio del ministro turco Talaat Pasha, uno dei mandanti della deportazione del popolo armeno, da parte di Soghomon Tehlirian, eroe della resistenza armena. Con un brusco stacco temporale si passa alla fine degli anni ’70, a Marsiglia, dove il giovane Aram (Syrus Shahidi) non sopporta la politica non violenta condotta dalla sua famiglia ed è intenzionato a rivendicare non solo l’indipendenza dell’Armenia nei confronti della Turchia ma pure il silenzio in cui è caduto il genocidio del suo popolo. Dopo aver partecipato all’attentato nei confronti dell’ambasciatore turco a Parigi, azione nel quale è rimasto coinvolto un giovane ciclista di passaggio, Aram decide di abbandonare la Francia e arruolarsi nell'Esercito segreto per la liberazione dell'Armenia.
Nonostante la complessità della vicenda il regista opta per un racconto classico, lineare ed eccessivamente didascalico, dove l’evidente intento didattico finisce col soffocare ogni originalità narrativa. Complice un montaggio rigidamente televisivo, che consiste nel raffigurare il reale come un tutto omogeneo, Guédiguian sceglie di mostrare allo spettatore, in modo romanzesco e pedissequo, ogni minima trasformazione emotiva da parte dei personaggi nonché ogni singola evoluzione della trama. Tuttavia, nonostante l’estrema asetticità e convenzionalità del racconto, il cineasta francese elabora un’interessante riflessione sula violenza e sull’esigenza, da parte degli armeni, di ricordare il tragico destino subito. Si instaura così una dicotomia che vede come protagonisti da una parte il giovane Aram, imberbe, vitale e in cerca di un facironoso riscatto nazionalistico, e dall’altra il padre Simon (Hovannes Alexandrian), pacato, moderato e deciso a mantenere vive le tradizione armene attraverso legittimazioni culturali e non violente.
Questo è il dramma concettuale più profondo e interessante che emerge, seppur a fatica: qual è la strada più efficace per far conoscere al mondo lo sterminio subito dal popolo armeno e, in generale, per dar voce ai popoli oppressi? Se, storicamente, i rivoluzionari armeni, fedeli all’idee marxiste, hanno scelto il cammino della violenza, uccidendo non solo politici turchi ma centinaia di civili innocenti, Guédiguian pare optare per la soluzione dialettica e non violenta.
È così, in un finale fazioso e stereotipico, sembrano echeggiare le profonde parole di un altro grande rivoluzionario (che combatté, proprio in quegli anni, per l’indipendenza della Cecoslovacchia) Václav Havel: «i movimenti d’indipendenza non puntano alla trasformazione politica violenta ma non perché considerano questa troppo radicale bensì, al contrario, perché è troppo poco radicale». Un messaggio alto purtroppo schiacciato dal timbro poetico asciutto, piatto e fin troppo didascalico del film.