«Un poeta una volta ha detto: “L'intero universo è un bicchiere di vino”. Probabilmente non sapremo mai in che senso intendesse ciò, dal momento che i poeti non scrivono certo per farsi capire. Ma è vero che se osserviamo un bicchiere di vino abbastanza attentamente vediamo davvero l’intero universo. Ci sono tutte le cose della fisica: il liquido turbolento e in evaporazione in funzione del vento e del tempo, il riflesso sul vetro del bicchiere, e la nostra immaginazione aggiunge gli atomi». Queste parole del celebre fisico americano Richard P. Feyman rendono bene l'idea di quanto il nettare caro a Bacco trasmetta valori e significati che trascendono il mero fenomeno della fermentazione del succo d'uva (che già di per sé è un'arte: come dice Adrian Carsini, magnifico villain elegantemente interpretato da Donald Pleasance in uno dei più riusciti episodi della serie Colombo, «Tiziano sarebbe probabilmente diventato matto a cercare di ottenere un rosso così bello. E non ci sarebbe neanche riuscito»).
La rassegna “Cinema (di)vino”, promossa da FIC - Federazione Italiana Cineforum nell'ambito del progetto “Cinema al Cuore”, e rifacendosi alla ricchissima tradizione enologica dei territori di Bergamo e Brescia, rende un doveroso, brillante e gustoso omaggio al vino, con alcune delle sue più significative presenze sul grande schermo.
Nella rassegna sono presenti diversi fra i migliori documentari recenti sull'argomento. Resistenza naturale (2014) di Jonathan Nossiter è un elogio del vino naturale italiano; tanto pessimista era il suo precedente Mondovino, tra descrizioni di affari e speculazioni, quanto giocoso è questo Resistenza naturale. Our Blood Is Wine (2018) di Emily Railsback racconta del recupero, nella Georgia post sovietica, di una tradizione antica di cinquemila anni, la vinificazione mediante grandi otri sepolti nel terreno. Le terre alte (2020) di Andrea Zambelli e Andrea Zanoli illustra tre diverse esperienze di ritorno alla viticoltura di montagna lungo tutto l'arco alpino: come affermano gli autori, «A colpirci è stata soprattutto l’impressione di resistenza, di libertà. Come se nell’ambiente alpino, duro ed esigente, queste persone avessero trovato un proprio senso, che altrove invece mancava».
Importante la presenza di film di fiction, a partire da Providence (1977) di Alain Resnais, nel quale un sublime Chablis è l'ispiratore e compagno di ricordi, rimpianti e guizzi creativi dell'anziano scrittore Clive Langham (John Gielgud). Come scrisse su «Cineforum» Ermanno Comuzio, «Il vino riscalda, lega alla terra, stimola la fantasia, provoca l'ebbrezza, cioè quello stato di grazia in cui l'uomo vede le cose più lucidamente, parla col dio, partecipa del mistero. È anche un modo per scacciare l'angoscia, si capisce. Per dimenticare: eppure il passato non è tutto da dimenticare, la memoria non è tutta angoscia, basta farla rivivere, basta “utilizzarla” per il presente». Langham/Gielgud pare aver trovato la sua fatalistica, rassegnata e serena filosofia quando dice, seduto per terra, accoccolato alla ringhiera del pianerottolo e riferendosi alla prima bottiglia di Chablis ormai vuota che sta accanto a sé: «Ecco il primo morto della giornata. Chissà chi sarà il prossimo».
Eric Rohmer, in Racconto d'autunno (1998), sembra puntare per la prima volta l'attenzione verso una generazione, i quarantenni, un po' più matura rispetto ai ragazzi dei suoi film precedenti. Girato nel glorioso paesaggio della Valle del Rodano, e nella sua stagione più bella, il film dimostra che esseri umani e vino hanno in comune una cosa fondamentale: bisogna saper invecchiare bene. Magali (Marie Riviere) a un certo punto dice. «La vendemmia è finita». Ma Rohmer, sornionamente, ci ricorda che l'anno prossimo ce ne sarà un'altra. In Borgogna è invece ambientato Ritorno in Borgogna (2017) di Cédric Klapisch, storia di un vigneto ricevuto in eredità e di due fratelli e una sorella che, rimasti nella produzione del vino, ma in ambiti più globalizzati, tornano a un mondo abbandonato come la viticoltura tradizionale. L'attenzione ai piccoli gesti, l'amorevole descrizione della raccolta e della pigiatura dell'uva, trasformano la campagna borgognona da mero sfondo a coprotagonista. Tutt'altra aria di famiglia in Saint Amour (2016) di Benoît Delépine e Gustave Kervern. Il Tour di France alcolico intrapreso da Gérard Depardieu e Benoît Poelvoorde (padre e figlio: raramente si è vista al cinema una coppia altrettanto azzeccata) diventa un'esperienza a metà strada fra Rabelais e la ricerca della Santissima Trinità nella bottiglia, un pellegrinaggio fra i vigneti dove ritrovare se stessi e il senso della vita.
Itinerario simile, nella Napa Valley in California, è quello intrapreso dagli amici Miles (Paul Giamatti) e Jack (Thomas Haden Church). Il programma è bere bene, mangiare bene, giocare a golf e non pensare all'ex moglie per il primo, fare le ultime mattane prima dell'imminente matrimonio per il secondo. L'odissea semiseria in cui invece incappano, li porta a una certa identificazione fra loro stessi e il vino, e li conduce pure a una profonda verità filosofica: non cercare mai l'occasione giusta per bere un grande vino, perché è il vino stesso a fare grande l'occasione. Una delle ultime immagini del film, nella quale Miles, solitario e in un MacDonald, beve un mitico Cheval Blanc in un bicchiere di carta, ce lo dimostra, ricordandoci anche quanto detto a suo tempo da sir Winston Churchill, altro grande estimatore del nettare di Bacco: «Il vino? È più quello che mi ha dato di quello che mi ha tolto».