Sarà solo una coincidenza, ma impressiona vedere che negli ultimi dodici mesi sono usciti almeno tre biopic, tutti e tre atipici, di altrettante anti-eroine tragiche del secondo Novecento: Barbara di Mathieu Amalric, Nico 1988 di Susanna Nicchiarelli e, ora 3 Tagen in Quiberon di Emily Atef, che, non ce l’ha stesa nel titolo, ma parla di Romy Schneider, o, meglio, ne mette al centro tre giorni ordinari e allo stesso tempo speciali. È il 1981, e in un hotel/SPA a 5 stelle in un angolo remoto della Bretagna, per l’ennesima volta, l’attrice austriaca cercava di raddrizzare la propria esistenza, segnata da una grande fragilità, dal rapporto complicato con la madre Magda – che era stata una delle attrici favorite di Hitler –, dagli strascichi di relazioni importanti o comunque mediaticamente forti, su tutte quella con Alain Delon (peraltro un fantasma non secondario anche nella vicenda di Nico); o dal suicidio, due anni prima, del marito Harry Meyden, impiccatosi con una sciarpa; ma, soprattutto, dall’ingombrante fantasma-feticcio del ruolo che, proprio accanto alla madre, l’aveva lanciata, diciassettenne, nell’empireo del cinema, Sissi: un’immagine di adolescente energica e radiosa che, a 42 anni, Rosemarie Magdalena Albach cercava disperatamente di eclissare, non da ultimo con ruoli che sembrano scelti apposta per picconare la scorza di quel feticcio, offerti da Żuławski, Petrović, Costa Gavras, Tavernier e, proprio in quello stesso anno, anche Dino Risi.
Il 1981 è anche l’anno in cui, il 5 luglio, il figlio David rimane infilzato mentre scavalca una cancellata, morendo. Ma molto di questo, fortunatamente, Emily Atef lo lascia fuori dal film. La regista berlinese, di origine franco-iraniana, si interessa al dramma, escludendo dal frame il melodramma; si concentra sul male di vivere e sul potenziale umano che può emergere da una situazione confortevole e confinata e da un gruppo ristretto di personaggi. Quattro, quelli più importanti: la Schneider (interpretata con un virtuosismo quasi miracoloso da Marie Bäumer), la sua amica Hilde Fritsch (Birgit Minichmayr) il fotografo e amico Robert Lebeck (Charly Hübner), e Michael Jürgs (Robert Gwisdek), il giornalista inviato dallo «Stern» a raccogliere un’intervista-confessione esclusiva, che sarà anche l’ultima. Proprio le foto, in bianco e nero, di Lebeck, diventate da subito i ritratti definitivi di un’anima fragile, impongono ad Atef la scelta del bianco e nero; un bianco e nero dalla luminosità spesso indeterminata, sfuggente, che, a dispetto dei tre giorni nominati nel titolo, rende indeterminato anche lo scorrere del tempo. In questa bolla, visiva ed emotiva, l’intervista diventa quasi una sessione di analisi, i cui ricaschi non escludono nessuno dei presenti. C’è qualcosa di musicale, nella conduzione del gruppo di personaggi, come fosse un vero e proprio quartetto, vagamente atonale: Romy, nella propria aspirazione all’apertura e alla sincerità totale, è un violino che rivendica l’intonazione malinconica della viola, Hilde, timbro omologo, le fa da sostegno e contrappunto, così come, in forma di basso più scherzoso, ritmico, fa Lebeck, mentre Jürgs è una voce insinuante, un violoncello incalzante, cinico. Il tempo è moderato, quando non sehr langsam, anche se non manca un rondeau centrale, un allegro non molto, bagnato dallo champagne (e coronato da un cameo un po’ gratuito di Denis Lavant, nei panni di un pescatore poeta). Il finale stesso, quasi letteralmente uno scherzo, dopo il finto infortunio per recuperare del tempo da dedicare ai figli, risarcisce la parabola tragica dell’attrice con un fermo immagine sereno, «vivrò la mia vita appieno» ha appena corretto sulla bozza dell’intervista. Il resto è cronaca.