“Come è possibile ribellarsi in questi tempi? Come è possibile essere liberi?” Sono quelle domande che fanno tremare i polsi e sono quelle che si chiedono i personaggi di Ang Panahon ng Halimaw, cioè “la stagione del diavolo”, quella che ha terrorizzato un piccolo villaggio delle Filippine del Sud nel 1979 durante la legge marziale di Marcos, dove le truppe paramilitari possedevano un potere d’arbitrio praticamente senza limiti. Ma non è difficile vedere in filigrana anche la war on drugs di Duterte, la via filippina alla stato d’eccezione che ha caratterizzato l’arcipelago negli ultimi anni e che ha dispiegato una militarizzazione della società che va ben oltre la lotta al narcotraffico. Lav Diaz con questo film – accompagnato come sempre accade con questo regista da improperi di ogni tipo da parte della stampa di stanza a Berlino, che considera la visione di un film di 234 minuti una sorta di sadico supplizio – fa senz’altro uno dei suoi interventi più espliciti e militanti nella tormentata attualità del suo paese.
E tuttavia lo fa nella forma più insolita, non soltanto perché il film viene definito dal regista stesso – in modo, crediamo, tutt’altro che ironico – un’opera rock, ma anche perché la messa in scena questa volta si distacca in modo significativo dai suoi precedenti lavori. È infatti da qualche film a questa parte che Lav Diaz ha progressivamente intrapreso un processo di astrazione del proprio stile: non più i lunghissimi tableau vivant per lo più in mezzo alla natura, non più una troupe ridotta all’osso e l’estremizzazione dell’uso di temporalità lunghissime, camera fissa e luce naturale. Questa volta l’immagine pare essere disegnata e artificiale fino a prendere le sembianze di un graphic novel. Lo diceva lo stesso regista in un’intervista di due anni fa concessa a Giampiero Raganelli in occasione della presentazione di Lullaby to the Sorrowful Mysteries, in cui parlando dell’uso innaturale della luce nel film parlava di un omaggio alle vecchie illustrazioni a fumetti filippine e del tentativo di riprodurre quell’uso del chiaroscuro.
Ang Panahon ng Halimaw estremizza tale approccio con un uso della luce platealmente innaturale, che a volte abbaglia parti del quadro e si costituisce come vero e proprio personaggio all’interno del film. Ma l’elemento che colpisce e spiazza tutti è l’idea di musicare il film con il solo intervento delle voci degli attori: anche se le linee melodiche sono spesso assai orecchiabili e non c’è nessuna concessione a tradizioni folkloriche, l’effetto è quello di un insolito musical “acustico” (interamente girato in presa diretta). Se di rock si tratta, lo è nel senso molto preciso che caratterizza, ad esempio, un album come Nebraska di Bruce Springsteen: dove viene mantenuta la scrittura del rock, ma l’arrangiamento è “ridotto” ai suoi termini minimi (in quel caso solo voce e chitarra, in questo la sola vocalità).
Il risultato è che nel vedere Ang Panahon ng Halimaw non si fa esperienza di quell’immersione nelle temporalità dilatate che avevano sempre caratterizzato i film precedenti di Lav Diaz, ma semmai di un continuo effetto di distanziazione: i personaggi parlano attraverso i versi delle canzoni e spesso la loro presenza è caratterizzata dalla ripetizione degli stessi leitmotiv per tutto il film. Questo ne fa il film più “scritto”, meno realistico e forse persino più cerebrale del regista.
La vicenda si svolge nel villaggio povero e rurale di Barrio Grito, dove Lorena, dottoressa e militante, decide di aprire una clinica per curare i poveri. In seguito alla risposta violenta dei paramilitari, che le distruggono la clinica e la rapiscono, suo marito, il poeta Hugo va a cercarla. Questa storia si interseca però con quella di una madre, che ha visto il marito e il figlio uccisi in mezzo alla strada con l’accusa di essere dei trafficanti di droga e di aver cospirato contro i militari. Mentre i paramilitari, guidati da una strana figura a due facce di nome Chairman Narciso, sanno che per comandare devono sopprimere ogni possibile focolaio di rivolta e cambiamento non solo con la violenza, anche con la diffusione di leggende, miti e bugie.
Come sempre nei film di Lav Diaz la divisione tra chi detiene il potere e chi ne è soggiogato non è mai manichea, e la presenza di elementi sovrannaturali e magici non è mai esterna alla storia, ma anzi ne è una diretta conseguenza. Il popolo ha paura di quelle figure tra l’animale e l’umano che invece potrebbe usare a proprio vantaggio, così come delle parole che il potere sa far diventare delle armi e per resistere alle quali servirebbe soprattutto un poeta.
Perché è soprattutto la litania del potere quella che sentiamo cantare – un ritornello che viene continuamente ripetuto e che rimane in testa durante le quasi quattro ore di film – ed è quella che il popolo dovrebbe invece reclamare come propria, e usare come forma di resistenza (come succede nel bellissimo dialogo finale durante l’incarcerazione di Hugo, che canta in faccia ai paralimitari la canzone che loro hanno usato per tutto il film per accompagnare le loro angherie). È difficile poter vedere una via d’uscita in una forma così dura e così violenta di segregazione, ed è difficile poter pensare a come un “figlio di questa patria” – come viene cantato spesso – possa volersi ribellare quando si è così isolati e si è così sproporzionalmente deboli. Quando lottare vuol dire rischiare la propria vita in prima persona, spesso senza raggiungere alcun risultato concreto.
È possibile uscire da questo circolo vizioso? Lav Diaz non sembra offrire grandi speranze, ma riesce quanto meno a trovare lo spazio per un’ambivalenza: quando i paramilitare devono uccidere Hugo usano un’arma molto più forte della tortura, la sua disperazione; gli danno in mano una pistola e dopo avergli rivelato di tutti gli stupri, le torture e le violenza che hanno inflitto alle moglie lo lasciano da solo. Alla fine, dunque, siamo noi stessi a tenere una pistola puntata alla tempia: bisogna saper ribaltare la disperazione in potenza, la violenza in riscatto e le superstizioni in verità.
E ribaltare il senso della litania del potere, per farla diventare un canto di gioia.