Uno dei grandi pregi del cinema di Steven Soderbergh è quello di essere sempre fortemente contemporaneo. Che detto così può voler dire tutto e niente. Eppure è una definizione che indica perfettamente quel grado di attenzione all’oggi, alle sue dinamiche sociali e culturali che il regista di Atlanta mette in tutto quello che produce. Ma che rende anche l’idea di come Soderbergh abbia una spiccata sensibilità e un autentico interesse per l’immagine. Intesa nel senso di elemento che cambia forma, contenuto, disposizione in maniera continua e – stante la proliferazione di immagini a cui siamo soggetti – è diventata quasi inafferrabile e difficile da tematizzare anche e soprattutto al cinema. Soderbergh è un arguto e instancabile osservatore e recepisce con grande facilità gli stimoli visivi del mondo che lo circonda. Motivo per cui in ogni film (o serie) indaga, sperimenta e crea forme espressive – oltre che estetiche – sempre diverse. E non per caso egli è spesso autore anche della fotografia dei propri film.
In quest’ultimo Unsane, presentato Fuori Concorso alla Berlinale, la questione espressiva è di fondamentale rilevanza. Il film è girato tutto con l’iPhone (modello 7 Plus, ne sono stati utilizzati tre) la cui camera integrata è stata potenziata da una app (FiLMiC Pro) tramite la quale sono stati gestiti fuoco, esposizione e temperatura. Cosa che dà l’idea di quanto uno strumento largamente diffuso e con cui ognuno di noi ha assoluta familiarità, possa diventare un dispositivo di senso anche in termini professionali. Non tanto perché rende il lavoro del regista accessibile, anzi. È ovvio che con i soldi della Fox (che produce il film) e un lavoro altamente professionale sulla ripresa, il sonoro e soprattutto sulla post-produzione, il risultato non è lontanamente paragonabile a quello che potrebbe ottenere ciascuno di noi. Ciò che dimostra Soderbergh è però il ruolo documentario assoluto che il telefono portatile (sebbene chiamarlo telefono sia quantomeno riduttivo) ha assunto nella società di oggi. Nessuna grande scoperta naturalmente, ma un invito a riflettere sulle potenzialità del mezzo in questione.
Il film racconta di Sawyer, una giovane donna che, chiedendo un consulto in una struttura psichiatrica per combattere i fantasmi di uno stalking subito nel recente passato, si trova a essere ricoverata contro la propria volontà ricascando, in conseguenza di questo, nell’incubo dal quale cercava di liberarsi.
E lo smartphone, nello svolgimento della storia ricopre un ruolo centrale. Sawyer è convinta che uno degli infermieri del reparto psichiatrico in cui è rinchiusa sia lo stesso stalker che l’aveva perseguitata anni prima, ma per chi guarda non è chiaro se la situazione corrisponda al vero o se al contrario lo stato di emergenza risieda tutto nella testa della donna. Ed è proprio un telefono a svelare, all’incirca a metà del film, come stiano davvero le cose. Un oggetto per cui è proibito l’accesso ai pazienti e diventa – nel momento in cui la protagonista ne entra in possesso – l’elemento che si pone come rivelatore della verità. Perché le fotografie scattate e inviate in diretta, come le telefonate e i messaggi di cui rimangono le tracce non mentono mai. Come impronte che restituiscono testimonianza.
Ma è anche vero che il medesimo dispositivo può essere impiegato per creare una finzione totale, che è quella del film stesso: un racconto di pura fantasia che si costruisce attraverso le potenzialità di un semplicissimo telefono portatile. Il gioco di Soderbergh intorno a questa ambiguità è allo stesso tempo il nocciolo del film e il suo limite. Proprio perché di un gioco si tratta. Eppure il perenne senso di claustrofobia e tensione che il film congegna è tale anche per via del ruolo che giocano i mezzi tecnologici.
La solitudine di Sawyer è già tale all’inizio del film quando le sue uniche relazioni sociali sono scandite proprio dalle abitudini sottese all’uso del telefonino (una pausa pranzo al parco da sola in videochiamata con la madre, un appuntamento Tinder), ma diventa reale quando il telefono – insieme agli altri effetti personali – le viene confiscato dal personale della casa di cura. Da lì in poi ogni tentativo di liberarsi dalla condizione di reclusa, così come quella dello stato di terrore dipenderà esclusivamente dalla possibilità di comunicare (la telefonata alla polizia, fatta da un vecchio telefono fisso, non per caso non avrà esito positivo).
Il senso di tutto questo sta probabilmente nel messaggio che il regista consegna al personaggio dell’agente dell’Fbi che prende in carico l’indagine di stalking di Sawyer, nel flash back che racconta l’origine dell’atto persecutorio. L’uomo, dopo aver suggerito alla ragazza un cambio atteggiamento nell’uso dei social network al fine di non dare punti di riferimento al proprio stalker, le consegna un libro invitandola a far sì che diventi la sua bibbia. Titolo: Il dono della paura.