Se l’amour fou designa quel sentimento d’amore irrazionale e poetico capace di trasformarsi in pulsione ossessiva e autodistruttiva, di accendere chi ne è preda di una fiamma destinata a bruciarlo, il film di Jessica Hausner – ancora una volta (la terza) al Certain Regard, ma avrebbe meritato a pieno titolo il Concorso – sembra prenderne in prestito solo l’accezione che ha che fare con l’aspetto più tragico, quello che conduce all’annientamento del sé e che asseconda la pulsione di morte molto più che quella d’amore.
Ispirandosi alla storia del poeta romantico Heinrich von Kleist e del suicidio che egli, appena trentaquattrenne, attuò in coppia con la giovane amica Henriette Vogel nel novembre del 1811, la regista austriaca costruisce il racconto di un (presunto) amore fatale nel quale tutto ciò che dovrebbe ardere di passione è affondato nel ghiaccio più ispido.
Agendo attraverso una regia ancora più rigorosa del solito e muovendosi quasi esclusivamente negli interni dei palazzi aristocratici berlinesi, Hausner elabora una messinscena all’interno della quale i personaggi restano intrappolati e, come quasi in tutti gli altri film (in questo Amour Fou ricorda soprattutto Hotel, 2004) a diventare quasi accessori alla costruzione visiva.
Con la consueta attenzione per le forme e i colori, oltre che a una dedizione minuziosa alla ricostruzione degli ambienti e delle abitudini del primo Ottocento (le esibizioni musicali, le consuetudini familiari, i rapporti pubblici e quelli privati), inoltre, la regista svilisce, anche visivamente, l’ideale romantico dell’audacia dei sentimenti e della profonda natura emotiva delle passioni. E lo fa infiggendo in maniera esplicita e pungente il reale e il quotidiano nel cuore del fantastico, del poetico e dell’immaginifico cui l’idea romantica d’istinto conduce.
Come se dopo la religione, che in Lourdes (2009) finiva per confondersi con la superstizione e con sentimenti molto più prosaici come l’invidia e il rancore, anche l’amore diventi per la regista viennese l’occasione per riflettere sul complesso rapporto fra l’uomo e i propri istinti, i propri tormenti e desideri. E fra la banalità dell’esistenza e l’incomunicabilità col prossimo. In fondo l’ironia che Hausner mette nella scrittura – oltre che nella rappresentazione – di un’opera che scolora nei toni del grottesco il proprio impeto drammatico e che svuota di ogni senso consolatorio ogni gesto e ogni azione, è palpabile sin dalle prime inquadrature.
Von Kleist vuole morire e vuole farlo con una compagna (una qualunque) perché l’amore giustifichi la morte ed eros e thanatos assecondino la sua pulsione superomistica verso l’infelicità. Mentre la sua arte, che muore con lui senza dare risposta alcuna al suo dolore e alla sua infelicità, si specchia nella medesima inutilità cui conduce la scienza. Incapace, quest’ultima, di curare le ferite del corpo (quello di Henrietta) tanto quanto l’arte non pare in grado di curare quelle dello spirito, ma tuttavia quanto lei capace di avvelenare l’esistenza umana e di sottrarsi al bisogno di fornire risposte.