Quindici anni dopo Topsy Turvy, Mike Leigh torna al film in costume con Mr Turner, un biopic che segue l’ultimo trentennio della vita e della carriera di J.M.W. Turner. Di nuovo, come fu con Gilbert & Sullivan, Leigh torna a toccare uno dei miti fondativi della cultura e della creatività britannica, uno dei pittori più importanti dell’800, celebre per le sue marine, per molti il pittore romantico, che lo stesso regista definisce, sottolineando entrambe le categorie, “a radical, revolutionary painter”.
Il film parte dai tardi anni Venti, quando l’artista rientra da uno dei propri viaggi in Europa, e si conclude con la fine della sua parabola terrena, nel 1851. Fin dalla sequenza iniziale, non priva di ironia, con due contadine olandesi che avanzano chiacchierando mentre la macchina da presa lentamente si muove a trovare il pittore intento a schizzare il cielo al tramonto sul proprio portfolio tascabile, Leigh fissa la principale ossessione turneriana, quella per il sole e per la luce, e il rifiuto di certi aspetti genericamente “pittoreschi”.
Quello che sta a cuore a Leigh, ed è prestissimo evidente, è restituire un senso di sublime autenticamente radicato nella prima stagione romantica, attraverso il contrasto tra l’epica, l’afflato spirituale dell’arte turneriana e le bassezze, morali e corporali, i difetti dell’umanità: “sharing an experience that goes beyond the surface”.
“The surface”, la scorza di William Turner, ma anche quel che da quella scorza trapela, sono incarnati, in maniera affettuosamente caricata, da Timothy Spall che, insieme agli altri attori, insiste sull’implosione del pensiero, della parola e del gesto – è già leggenda il rantolo con cui reagisce a domande idiote o a situazioni scomode – ma anche sulla disfunzionalità o la semplice negazione dei sentimenti.
È un cast, quello di Mr Turner, che, come di consueto, raccoglie amici fidati (Ruth Sheen, Marion Bailey, Lesley Manville, tra tutti), volti, corpi e voci irregolari, che trovano una giustezza di relazioni in un lavoro impostato su affettività bloccate (come lo sono i corpi), su una recitazione antipsicologica che sembra confrontarsi ancora con l’universo visivo e linguistico di Hogarth e di Thackeray.
Il lavoro è anche un tema chiave del film, innanzitutto il lavoro dell’artista: Spall ha preso lezioni di pittura per replicare le sprezzature turneriane, il corpo a corpo con la tela e con la materia pittorica, gli interventi a mani nude, anche quello ai danni di John Constable alla Royal Academy.
Si tratta infatti anche di evidenziare il rispetto (o la mancanza di rispetto) per l’operare altrui in un’epoca di mutazioni radicali: da questo punto di vista è esemplare la sequenza in cui il giovane Ruskin cerca di smontare la fama di Claude Lorrain; Turner e altri artisti trovano naturale difendere il maestro francese dalla saccente verve del giovane critico, che sarà poi il timone dell’estetica vittoriana.
Lo stesso Turner, però, di fronte all’apparizione delle prime opere di Millais, davanti a quel ricomporre la forma e la tanto amata luce in una nuova maniera cerebrale e intellettualistica, non può che rantolare sarcastico. Diversamente la scoperta del mestiere del fotografo è accompagnata da un misto di resistenza e fascinazione, poiché il pittore sa che senza la tanto amata luce – “the sun is God”, dirà morendo – né la pittura né questa nuova strana arte sarebbero possibili. E tanto meno il cinema. Ma questo lo sa Mike Leigh, e noi insieme a lui.