Concorso

120 battements par minute di Robin Campillo (II)

focus top image

Si inizia con un gruppo di pacifici attivisti che cercano in tutti i modi di sensibilizzare il prossimo sulla cura e la prevenzione dell’AIDS. Si finisce al capezzale di un ragazzo che fino all’ultimo sembra deciso a continuare la sua battaglia a testa alta senza lasciarsi sconfiggere (nell’animo) dalla malattia. In mezzo, 120 minuti (gli stessi dei battiti del titolo) in cui non solo si racconta un’umanissima storia d’Amore (per la vita, per il prossimo, per l’anima gemella) ma si dà volto a un’interpretazione puntuale sulla società odierna.

Siamo nella Parigi degli anni Novanta, quando il movimento Act-Up raccoglieva a sé ragazzi affetti dall’HIV per provare a rompere gli schemi della disinformazione e soprattutto accogliere chi spesso rischiava di venire emarginato. Robin Campillo prende le mosse dallo stile de La classe (palma d’oro nel 2008 che lo vide protagonista al montaggio) cercando di restituire simultaneamente l’idea di un collettivo compatto e l’ostinata voglia di rottura da esso nutrita: non si respira durante le riunioni dei ragazzi, non sembra esserci una via di fuga apparente alla quale potersi aggrappare. L’unica arma a disposizione per non soccombere è quella della parola. Le magliette recitano lo slogan “Silence=Mort” ed è proprio il silenzio (quindi la morte) che i personaggi vogliono evitare a tutti i costi.

Poco alla volta però, lo sguardo si sposta dalla frenesia collettiva per soffermarsi sulla tragedia individuale e intima di uno dei personaggi. Ora è il corpo a essere al centro dell’indagine, un corpo costantemente torturato dalla macchina da presa e sviscerato senza esclusione di colpi tanto che pare di poterlo toccare, accarezzare. Il rosso (colore dominante dell’intero film, costantemente ricercato per tutta la durata) rimanda sicuramente al sangue “malato”, il veicolo più diretto e spietato dei virus che si cerca di combattere, ma è anche il colore della passione, un valore ormai sempre più raro capace di prendere le mosse da un singolo per poi insidiarsi poco alla volta nell’animo di un gruppo, di “contagiare” chi lo circonda.

In questi termini, il calvario raccontato da 120 battements par minute è uno specchio perfetto per restituire la stasi emotiva propria dei nostri giorni. Costretti a reinventarci dopo la crisi di valori conseguentemente sfociata da quella economica, l’appartenenza a un gruppo capace di risvegliare le nostre passioni sembra essere una via di fuga più che valida da (ri)cercare, un mezzo per evitare il silenzio mortifero che ci circonda, un tesoro prezioso da coltivare e difendere con tutta la spinta necessaria: a 120 battiti al minuti.