“Mi sono sempre chiesto fino a che punto un artista tenti di rappresentare la realtà di una scena. I pittori catturano solo un fotogramma della realtà e nulla di quello che c’è prima o dopo. Per 24 Frame ho deciso di usare le foto che avevo scattato negli anni. E ho aggiunto 4’30” di quello che immaginavo sarebbe potuto accadere prima o dopo ogni immagine che avevo scattato.”
È questa frase che sta in esergo a 24 Frames, il film postumo sul quale Abbas Kiarostami aveva lavorato negli ultimi anni della sua vita e che ora viene visto per la prima volta in un’emozionante proiezione speciale a Cannes. Il punto di partenza di questo lavoro è uno spunto teorico di straordinario interesse: qual è il flusso di reale di cui un quadro è sezione? Che cosa succede quando ritagliamo un fotogramma dal flusso infinito del divenire del reale? È una domanda capitale per provare ad articolare un pensiero del cinema, perché comprendere il rapporto tra l’immagine e il divenire vuol dire affrontare il problema dei presupposti filosofici di fondo dell’immagine in movimento. E il modo con cui questi si relazionano a una filosofia generale o a un’idea di reale.
Kiarostami in questo film parte da 24 immagini fisse – di cui la prima è i Cacciatori nella neve di Pieter Bruegel e l’ultima è l’immagine di una donna addormentata su un tavolo mentre un computer mostra la scena di un bacio di un vecchio film di Hollywood – che vengono poi letteralmente animate attraverso l’uso del chroma key e della computer graphic per provare a immaginare quale sarebbe stato il flusso di reale che queste 24 immagini fisse hanno interrotto. Di mezzo ci sono molte immagini di paesaggi naturali, tante sotto la neve, spesso con cervi, capre, uccelli, anatre. Eppure non è la contemplazione della natura che interessa necessariamente Kiarostami perché vediamo anche un gruppo di persone che guardano la Torre Eiffel, un angolo di strada di una città dove passano delle macchine, la finestra di una casa.
È nota la passione che Kiarostami ha sempre avuto sia per la pittura sia per l’immagine fotografica fissa, cioè non cinematografica e non in movimento. E tuttavia questo lavoro ci interroga soprattutto riguardo alla scelta formale di fondo: perché Kiarostami ha deciso di animare delle immagini fisse provando a immaginarsi il flusso di reale che stava prima e dopo di esse, e non ha invece usato una macchina da presa? Perché il flusso di divenire di cui un’immagine è sezione deve essere “ricostruito” artificialmente tramite un computer e non può essere invece semplicemente ripreso da uno dei mille dispositivi digitali con i quali è possibile produrre delle immagini video?
Forse perché il reale che i dispositivi cinematografici riprendono non può essere fino in fondo preso. Forse perché il reale del divenire è di un’altra natura e riguarda più la creazione della contemplazione. È qui che Kiarostami sembra proporci con questo film una vera e propria idea di divenire. Deleuze pensa che l’immagine cinematografica sia un intervento che può riattivare la potenza di un divenire che sta al di là del passivo e dell’attivo in un mondo dove normalmente vige solo la norma della rappresentazione empirica; Godard nelle Histoire(s) du cinéma pensa invece che l’immagine cinematografica che normalmente viene usata per illustrare una narrazione custodisca in sé la possibilità di essere ri-significata, proprio perché il suo divenire è una potenzialità infinita (e quindi è possibile ricostruire una storia del cinema delle virtualità inespresse).
Kiarostami in questo film sembra invece prediligere un’altra strada: il divenire che sta al di là e al di qua dell’immagine non deve essere colto in modo passivo o contemplativo, ma deve essere “costruito”. Il divenire insomma non lo si registra con la macchina da presa semmai lo si formalizza, ed esempio utilizzando la computer graphic. Il regista più che essere deleuziano e rifarsi alla potenzialità passiva della macchina da presa deve diventare un pittore, e usare una tavolozza che comprende anche l’utilizzo della tecnologia e dell’animazione. Kiarostami ci consegna così un testamento platonico sul cinema, che tuttavia non ci deve sorprendere. Tutto è stato il regista iraniano tranne che un contemplativo: com’è noto la celebre strada a zig-zag che ricorre in Dov'è la casa del mio amico?, in E la vita continua, e in Sotto gli ulivi non esisteva in natura, ma era stata letteralmente scavata nella montagna dalla troupe dei suoi film. Il cinema non taglia una porzione nel flusso della vita e del divenire, semmai ci aiuta a formalizzarla e a dipingerla meglio.