Il nuovo film della scozzese Lynn Ramsay, che torna a Cannes a sei anni di distanza da We Need to Talk About Kevin, è un viaggio disperato nella melma più oscura del mondo contemporaneo (un’incursione americana, curiosamente, parallela a quella compiuta l’anno scorso da un’altra autrice britannica: Andrea Arnold in American Honey), in cui la devastazione personale si specchia nell’amoralità di massa. Il protagonista Joe di Joaquin Phoenix, un uomo tormentato il cui lavoro consiste nel liberare bambine e adolescenti vittime di sfruttamento sessuale, è una vittima di molteplici stress post-traumatici: nella storia si ammassano flashback della sua infanzia, della sua esperienza in guerra, dei mostruosi casi di schiavitù contemporanea affrontati come agente dell’FBI. Joe ha visto le brutture del mondo, che lo hanno piegato, e ora reagisce con l’unica arma che conosce, quella della violenza.
Joaquin Phoenix – grasso, barbuto, bofonchiante – dona al personaggio una dolente animalità: parole a mezza bocca, un caracollare da zombie, la precisione e l’efficienza che improvvisamente si mostrano nell'attimo di colpire. L’arma preferita è un martello: colpi forti, concreti, silenziosi (o meglio, rumorosi solo nel momento del contatto con l’avversario, il nemico). L’omicidio è sempre un corpo a corpo, la morte non è asettica, è qualcosa con cui sporcarsi le mani.
Ramsay sceglie, per raccontare questa variazione di Taxi Driver – il dropout reduce divenuto assassino, l’ipotesi di una ragione vitale nel liberare l’innocenza violata di bambine e adolescenti – una strada impervia: mette in scena un vago desiderio di vendetta e di deviato senso di protezione; rappresenta l’osservazione orrorifica della realtà attraverso un senso perenne di allucinazione, di astrazione narrativa. Ramsay salta i raccordi; la trama non regala coerenza né cerca empatia; il racconto dell’investigazione e lo svelamento della storia vengono disseccati, manipolati, quasi omessi.
La ricerca del colpo di scena – quello ostentato con sprezzo del ridicolo da Fatih Akin in In the Fade, passato in concorso solo un giorno prima – viene azzerata: si preferisce descrivere la cura con cui Joe sceglie da un ferramenta il martello che sarà la sua arma piuttosto che capire come è arrivato a scoprire i colpevoli. La colonna sonora di Johnny Greenwood (bellissima e dissonante) lavora per antitesi, il montaggio è sincopato, la fotografia livida e sporca. La macchina da presa segue da vicino il protagonista, gli resta attaccata per spogliarlo ancora di più, non concede emozioni o giustificazioni.
Joe è quello che fa: una sequenza di azioni intervallate da rari momenti di stasi. Lo stesso schema cinetico di Good Time dei fratelli Safdie, che però cercava la coincidenza tra il protagonista e gli occhi dello spettatore in una narrazione ai limiti del credibile che si tramutava in esperienza lisergica. Ramsay fa un passo in avanti: il suo film più che una corsa in avanti sembra un salto nel vuoto. Non c’è utilità nel capire i meccanismi della storia: Joe libera le schiave bambine e lo fa con il suo martello. Basta. Il resto, conseguenza della malattia del mondo, è azione pura, irrazionale, illuminata con una luce livida. La politica è colpevole e corrotta, la guerra lascia vittime sul campo e al ritorno a casa, i federali scoprono orrori difficili da immaginare: quello narrato da Ramsay è un inferno in terra, e l’inferno non è un posto da eroi.
Il film è affascinante, nel suo nichilismo squarciato solo dall’ipotesi di futuro del finale, ma in più di un momento si accartoccia su se stesso, vittima del baratro che divide essenzialità e confusione: il senso, a furia di asciugare, a tratti evapora. You Were Never Really Here è il tentativo, coraggioso ma monco, di un cinema capace di esprimersi in tempo reale, senza respiro, scena per scena. È un film elettrico e irrisolto, ma ancora incapace di una sufficiente potenza evocativa per riuscire a scardinare fino in fondo le leggi del racconto.