Il merito di Jonas Carpignano è di credere – e molto – nel cinema che fa. Crede nei suoi personaggi, nelle storie che crea e soprattutto nei luoghi che sceglie. Il legame con la Calabria, protagonista degli ultimi quattro film (fra lunghi e corti) del regista italo-americano, è infatti talmente forte da averlo portato alla decisione di andare ad abitare a Gioia Tauro.
Gioia Tauro dove abita anche Pio – il protagonista di A Ciambra – un ragazzino di tredici anni della comunità Rom della provincia di Reggio Calabria che, come tutta la sua famiglia, vive di piccoli furti, truffe e affari con la malavita locale. Vuole diventare grande in fretta Pio e allora fuma, guida le auto, ruba e va con le prostitute. Anche se non ha dei veri amici, non sa leggere né scrivere e il treno gli fa paura perché corre veloce.
Credere significa quindi affezionarsi ai personaggi, volerli raccontare oltre la superficie, significa costruire una storia che metta la realtà al servizio della narrazione (Pio e la sua famiglia interpretano loro stessi, usano i loro veri nomi e il campo in cui vivono diventa la location principale del film) ma significa anche calarsi in una dimensione di mediazione totale, nella quale la camera diventa strumento che osserva, pedina e rivela. In fondo la scelta di ambientare un film dentro un campo Rom e di portare alla luce un tema così divisivo come quello della convivenza fra gruppi etnici diversi non è soltanto una rarità – quasi un’eccezione – nel cinema italiano contemporaneo, ma è anche la testimonianza della volontà di andare verso una rappresentazione eterogenea, complessa e non conciliante.
Crederci però spesso non basta. L’idea di cinema di Carpignano non sembra assecondata dallo sguardo che adotta. Calandosi nella quotidianità dei Rom di Gioia Tauro e entrando così a fondo nel contesto politico e culturale di una Calabria che è terra di confine lacerata dai conflitti etnici (Rosarno, dove Pio si reca per piazzare un iPad rubato è anche al centro dei due film precedenti di Carpignano: A Chjàna, 2012 e Mediterranea, 2015) e signoreggiata dalla ‘Ndrangheta, il regista sembra interessato ad affermare una prospettiva tutt’altro che anti-ideologica. Raccontare una comunità i cui modi di vivere e la cui cultura appaiono tanto difficili da comprendere da un punto di vista esterno, diventa in questo senso il tentativo di tracciare le coordinate per lo spettatore, di usare uno sguardo che potremmo definire quasi coloniale per generare in chi guarda un’empatia eterodiretta. E invece non solo è difficile affezionarsi al personaggio di Pio e alla sua famiglia, ma anche comprenderne le motivazioni. E non servono a molto in questo senso le velate citazioni neorealiste che Carpignano inserisce a più riprese (il cavallo di fronte al quale Pio resta affascinato ha la stessa valenza di quello adottato dai protagonisti di Sciuscià, 1946), suggerendo una prospettiva zavattiniana – sottolineata anche dal pedinamento insistente del protagonista. A rimetterci infatti non è tanto la genuinità dei personaggi – che diretti e sceneggiati con tanta invadenza perdono molta della loro naïvité – ma soprattutto l’intento di Carpignano di osservare con un’autenticità che, davvero, non sembra appartenergli.