Sta andando a casa della nonna, Lucy. Ci sta andando col suo nuovo fidanzato, per poterlo finalmente presentare. I due stanno attraversando New York in metropolitana, diretti a Bushwick, un quartiere di Brooklyn. Parlano del più e del meno con l'affiatamento tipico delle nuove coppie; come se in quel preciso momento non esistesse nient'altro. Un'atmosfera intima, favorita da vagoni e corridoi sotterranei insolitamente vuoti. La macchina da presa li segue, o meglio segue lui, il nuovo ragazzo di Lucy, mentre prende le scale per tornare in superficie. Non gli viene concesso nemmeno il tempo di respirare un po' d'aria che un proiettile lo colpisce dritto in testa: è scoppiata una guerra. Si dice che il Texas abbia dichiarato l'indipendenza e abbia scelto di conquistare New York per renderla la propria base operativa nella East Coast. Lucy si ritrova così in mezzo a uno scenario di guerriglia urbana non sapendo ovviamente cosa fare; l'unica certezza che ha in quel momento è la sicurezza di un ambiente familiare, qualcosa che riporti, almeno per lei, almeno per qualche momento, la pace.
È giocato su questo, Bushwick: sulla continua alternanza di pace e guerra, sulla disperata ricerca di un posto sicuro, intimo e familiare, in cui ognuno di noi cerca rifugio quando si ritrova in una situazione che va oltre le capacità di controllo. Sul mettere in scena il mondo come uno spietato scenario di guerra, il cui unico antidoto nasce nei rapporti umani, nella capacità degli uomini di aiutarsi l'un l'altro per contrastare e superare ciò che da soli non è possibile affrontare.
Lo fa, ovviamente, prendendo un espediente narrativo al limite tra il verosimile e il distopico, un "what if" che spinge i registi a Jonathan Milott e Cary Murnion a raccontare la storia attraverso un altro espediente estremo, e cioè tre lunghissimi piani sequenza. Un'idea di messa in scena che porta lo spettatore a sentirsi fin da subito spiazzato come la protagonista, a provare con lei la me-desima angoscia e il medesimo terrore nel muoversi tra spari ed esplosioni e infine a sentirsi libero di allentare la tensione non appena viene raggiunto un luogo sicuro.
In questo modo il film trasmettere visivamente l'alternanza tra caos e tranquillità provata da Lucy e propria del mondo in cui si muove. Lo spettatore è gettato in un continuo susseguirsi di vorticose sequenze d'azione, spesso avvincenti e ben coreografate, che rimandano da vicino a I figli degli uomini di Cuarón, e momenti, invece, in cui la macchina da presa si placa e tutto diventa immobile. Un'altalena di sensazioni che ha un intento narrativo fin troppo evidente, soprattutto se si considerano i luoghi in cui l'azione si ferma: una casa vicina a una chiesa o una lavanderia a gettoni trasformata in rifugio di fortuna, a simboleggiare l'emergere di sentimenti e rapporti interpersonali che potranno salvare le persone.
Ed è proprio in questi luoghi e momenti di pausa che i due registi decidono di trasmettere la propria idea di mondo; lo fanno, però, attraverso dialoghi e personaggi che non hanno la forza necessaria per reggere la scena e il peso del messaggio che trasmettono; lo fanno, soprattutto, con l'acquietarsi dell'azione e del virtuosismo stilistico, dando l'impressione di una mancanza di idee piut-tosto che una sensazione di pace. Ed è come se Milott e Murnion non credessero fino in fondo al loro film, accontentandosi di rimanere in superficie e provando a farsi ricordare per i muscoli di Dave Bautista piuttosto che per le parole della sua protagonista.