Ci sono film che a distanza di giorni, a volte mesi, altre volte anni, continuano a vivere dentro la mente dello spettatore. Film, le cui tematiche intavolate e i ragionamenti stimolati generano pensieri che poi uno si porta dietro per moltissimo tempo; a volte, per tutta la vita. Ci sono poi film che, con l'avvento dei titoli di coda, terminano in maniera netta e decisa il proprio discorso e, con esso, anche qualsiasi tipo di possibile considerazione post-visione. Ci sono infine film che esauriscono gli argomenti ancor prima di concludersi, finendo col ripetersi per riempire il tempo che li separa dall'accensione delle luci in sala.
E poi c'è Jupiter's Moon di Kornél Mundruczó, un film capace di esaurire tutto, ma proprio tutto quel poco che ha da dire con una didascalia iniziale: "tra le lune satellite di Giove, solo quattro sono in grado di ospitare la vita; una di queste è chiamata Europa".
Ed in effetti è proprio questa la prima cosa che si vede, in Jupiter's Moon: l'Europa. Un'Europa ormai incapace di accogliere "nuove forme di vita", incapace di accettare chi potrebbe portare un nuovo modo di vedere le cose, un cambio di prospettiva netto. Scappano nella foresta, braccati dalle forze dell'ordine; decine di uomini e donne in cerca di una nuova vita. Tra loro Aryan, che corre più veloce degli altri; verso un futuro migliore, verso la libertà. Però, dopo qualche metro, gli sparano e muore. Poi in realtà scopre di essere una sorta di supereroe il cui potere è quello di levitare in aria. Tipo Superman, ma senza laser dagli occhi. Quindi decide di non morire e inizia a girare su se stesso; lo fa in modo così convincente che un medico vede in lui un possibile nuovo messia, uno che potrebbe veramente cambiare tutto: come e in cosa, non si sa. E così, anziché iscriversi ad Hungarian's Got Talent i due decidono di mettere su un piccolo spettacolo in cui Aryan ruota, capovolge le stanze, crollare un po' di oggetti dalle mensole e la gente gli dà dei soldi. Perché, in effetti, è riuscito a cambiar loro la vita.
Sostanzialmente non c'è altro nel film di Mundruczó. Per il resto il regista ungherese sembra sia soltanto interessato a cercare ogni possibile soluzione narrativa e visiva per poter evidenziare il proprio talento, perdendo di fatto quello che vorrebbe e dovrebbe essere il messaggio principale del film.
Ed è chiaro che non basta sottolineare in ogni modo possibile lo stesso concetto, capovolgendo l'inquadratura a ogni occasione per ribadire continuamente il cambio di prospettiva che il protagonista porta con sé. Anche perché, attraverso quest'ossessione per il virtuosismo, Mundruczó sembra quasi volersi sovrapporre al suo protagonista, elevando la propria regia a punto di vista capace di far cambiare la visione sul mondo a chi assiste allo spettacolo: magari la prossima volta.