Quando nel 2015 Amos Gitai presentò Rabin, the Last Day si capì subito che non si trattava di un film come gli altri e che la sua importanza nella filmografia del regista israeliano sarebbe stata assai più rilevante del solito. Quello che non si poteva prevedere è che avrebbe avuto questo ruolo addirittura periodizzante per quello che Gitai avrebbe fatto nei due anni che sono passati da allora. Lo scorso febbraio al Festival di Berlino venne presentata alla Galleria SAVVY Contemporary un’installazione – o come l’avevano giustamente definita i curatori, una essay exhibition – intitolata The Law of the Pursuer, dove il film su Rabin veniva disassemblato e rimesso insieme ad altri spezzoni di suoi film del passato. L’intento era chiaro: Gitai rileggeva la sua stessa opera a partire dalla discontinuità rappresentata dal film su Rabin.
La stessa operazione viene messa in atto con questo West of the Jordan River, in cui Gitai ritorna sui luoghi di Field Diary, il suo primo documentario sulla guerra del Libano del 1982, a 35 anni di distanza, e in cui la situazione politica contemporanea viene riletta rifacendosi alla figura di Rabin, che apre e chiude il film. Nelle prime immagini Gitai parla di un film che vorrebbe fare per documentare l’attualità dell’occupazione israeliana, ma le immagini non sono quelle attuali, risalgono agli anni Novanta. C’è una sconnessione da quello che le immagini sono e quello che dicono. Subito dopo lo vediamo fare una breve intervista a Yitzhak Rabin, il quale rifiuta lo statuto di “utopista” e sottolinea come una soluzione politica in Medio Oriente non debba basarsi su una petizione di principio o ideale ma soltanto sulla razionalità della politica.
Per Gitai gli anni Novanta, e in particolare gli accordi di Oslo, sono il punto in cui la storia si è divaricata. E allora bisogna ritornare lì, nonostante il discredito che quel progetto oggi riceve alla luce della Seconda Intifada e della svolta a destra che ha caratterizzato la politica israeliana, da allora sempre più Likud-centrica. Ma la posizione politica di Gitai, che in questo film diventa esplicita come non mai, è interessante anche per il suo statuto strettamente cinematografico: iniziare e finire un film che rivendica la propria attualità con immagini degli anni Novanta, ci consegna una precisa idea del tempo storico. Se è necessario andare a ri-attivare le potenzialità di pace inespresse in un progetto politico ormai morto come quello di Oslo, è perché bisogna guardare la contemporaneità del Medio Oriente a partire da uno sguardo inattuale e obliquo; bisogna rivendicare la propria non appartenenza al proprio tempo storico. Gitai ce lo mostra con un montaggio impietoso che fa seguire alla lucida razionalità di Rabin la volgarità del governo Netanyahu, tramite l’arroganza colma di violenza di Tzipi Hotovely, ministro degli esteri del Likud, che incarna l’abissale distanza, culturale oltre che politica, che separa la storia israeliana di questi ultimi vent’anni.
Ma West of the Jordan River vuole anche essere una testimonianza di piccoli esempi di resistenza all’occupazione: dall’associazione The Parents Circle, che riunisce madri arabe e israeliane che hanno perso i propri figli nel conflitto, all’interessantissima esperienza dell’organizzazione umanitaria B’Tselem, che forma donne palestinesi all’uso delle riprese video per documentare la microfisica e la quotidiana violenza dei soldati occupanti. Al netto dell’interesse per un racconto di esperienze umanitarie e Organizzazioni non-governative la cui rilevanza non è in alcun modo da relativizzare, il multiculturalismo riformista e social-democratico di Gitai mostra qui anche i suoi inevitabili limiti: non tanto perché le testimonianze di incontro arabo-israeliano non vadano al di là di gesti di umanitarismo testimoniale, ma perché la spietatezza e la profondità con cui riesce a penetrare nella politica israeliana è completamente assente nei suoi interlocutori palestinesi. I palestinesi sono delle madri a cui hanno ucciso dei figli, un bambino che da grande vuole diventare martire, un gruppo di vecchi seduti al bar, mentre gli israeliani sono giornalisti, politici, intellettuali. C’è un abisso nella qualità dell’articolazione tra gli uni e gli altri, che finisce per dare ai palestinesi unicamente il ruolo di vittime, mentre gli israeliani vengono rappresentati come soggetti politici complessi (anche nella loro problematicità).
Gitai vuole sostenere con autentica passione politica democratica questi brevi eppure concreti momenti di incontro (come il conclusivo torneo di backgammon arabo-israeliano, dove si rivendica la comune radice mediterranea della cultura ebraico-israeliana e arabo-palestinese). Eppure a volte dà l’impressione di voler convincere innanzitutto se stesso della bontà di questa strada, instillando il dubbio che forse, per una reale soluzione politica, ci vorrebbe ben altro che qualche volenterosa ONG. Il suo desiderio cinematografico finisce infatti per esprimersi suo malgrado quando, ad esempio, di fronte a un gruppo di anziani palestinesi di modesta estrazione sociale che chiedono come unica possibile premessa alla pace la fine dell’occupazione militare, pone la domanda che evidentemente continua a ossessionare innanzitutto se stesso: «Perché sulla soglia della ratifica del trattato di Oslo si sono intensificati gli attacchi terroristici ai civili israeliani? Perché da parte palestinese c’è stata una recrudescenza della propria opzione militare proprio quando la possibilità della pace era più vicina?».
È la stessa domanda – rivolta alla parte palestinese – attorno alla quale ruota il capolavoro Rabin, the Last: "perché l’estrema destra israeliana ha boicottato la pace di Oslo e ha assassinato Rabin?" È la soglia oscura con cui si scontra la razionalità del riformismo social-democratico di Rabin e dello stesso Gitai: il limite che la ragionevolezza politica incontra quando è costretta a guardare negli occhi la profondità di un antagonismo fondato su qualcosa di ben più profondo del fallimento di una mediazione.