Perché i film di Ceylan sono così lunghi, i suoi dialoghi così corposi, le sue immagini così larghe, anche negli interni dove i suoi personaggi immancabilmente conversano, mangiano, bevono té? Bisognerebbe provare a vedere i suoi stessi film con tempi meno dilatati, dialoghi ridotti all’osso, scene espunte al montaggio, e capire se funzionano comunque; se, cioè, il suo cinema – che è cinema d’autore che non si nasconde e non cerca compromessi con lo spettatore rifuggendo da un’idea consolidata di poeticità e artisticità – possiede ugualmente quel passo profondo e inafferrabile che è il passo della vita e delle sue molteplici stratificazioni, dell’incrocio di visioni, desideri, punti di vista, egoismi di cui sono fatte le relazioni umane, dai rapporti di coppia al legame tra un padre e un figlio, due amici e una donna, un professore e una sua allieva…
Non è una questione di economia del racconto, di esibizione compiaciuta di una evidente abilità di scrittura: sarebbe troppo facile. È questione di riconoscere ancora al cinema – a questo cinema digitale che purtroppo non ha più la profondità della pellicola – la capacità di aprirsi all’invisibile, alla trascendenza. A Ceylan – che sulla trascendenza delle immagini a questo giro ci scherza pure su – probabilmente piacerebbe girare con la pellicola e magari inserire i suoi personaggi negli spazi naturali della sua Turchia rurale e coglierne così la bellezza malinconica e la solitudine esistenziale: ma dovendo per forza lavorare con il digitale, s’interroga soprattutto sulla tenuta delle sue immagini e dunque sulla piattezza dell’alta definizione, sulle sue figure inevitabilmente scontornate dal fondo, stagliate contro un paesaggio che si fa scenografia inanimata e secca.
In About Dry Grasses (tre ore e diciassette minuti di durata!), storia di Samet, un professore di storia dell’arte che lavora nella scuola media di un paesino sperduto della Turchia orientale e in attesa di trasferirsi a Istanbul vive con il collega Kenan e insieme a quest’ultimo corteggia l’insegnante Nuray, non prima di essere stato accusato di comportamento inappropriato da una studentessa, il racconto è inframmezzato dalle fotografie che il protagonista, troppo pigro per essere artista e perseguire le sue velleità, scatta nelle campagne attorno al villaggio dove vive: ritratti frontali di persone che, del centro dell’inquadratura e staccate dal paesaggio con la funzione “ritratto”, guardano verso l’obiettivo. In queste immagini Ceylan riflette sul riconoscimento del protagonista nei suoi stessi soggetti, poiché per Semat – uomo aperto di vedute ma egoista, gentile ma meschino – ogni ritratto diventa uno specchio di sé, un frammento del suo inguaribile narcisismo.
Per Ceylan, che usa gli scatti fissi come momenti di pausa dalla densità dei suoi dialoghi (scritti con la moglie Ebru Ceylan e con Akin Aksu), il cinema non serve a osservare la realtà, a comprenderla nelle sue logiche pubbliche e private, storiche e sociologiche (nonostante in questo film ci sia come sempre l’ombra dello stato turco, evidente nella gestione di un potere – qui quello scolastico – autoritario e sommario, violento e invasivo). Il cinema serve a restituire la caotica dicotomia delle relazioni umane, sospese in un equilibrio fragile fra narcisismo e incontro con l’altro, pregiudizi e apertura, individualismo e responsabilità, bontà e interesse, purezza e colpa.
About Dry Grasses parla di tutto questo, ma in realtà, perduto nei mille rivoli delle sue lunghissime conversazioni, non parla di nulla. Prende un paesaggio – il solito paesaggio aspro e struggente del cinema di Ceylan, qui una campagna immersa sotto una neve perenne – e fin dalla prima inquadratura vi mette dentro un personaggio, ancora una volta uno straniero che viene dalla città (e sogna di tornarvi), e poco alla volta lo fa interagire con le persone del luogo, coi colleghi, le istituzioni, gli amici, le donne, mostrandolo per quello che è e per quello che cerca di essere, rivelando la sua irresponsabilità, il suo egoismo e la sua umana miseria nelle discussioni nei continui cambi di prospettiva sia dialettica sia visiva (soprattutto quando a incalzare Samet ci pensa Nuray, donna coraggiosa ferita in un attentato, militante e come tutti interessata a perseguire il proprio desiderio). Nel film le possibili linee narrative legate alle vicende di Semat si susseguono e si sovrappongono, scorrendo parallele e dando al racconto un passo apparentemente dispersivo, dove ad avvicendarsi sono sia varie possibilità di stile (quando Samet e Kenan sono accusati dalle studentesse sembra di stare in un film di Mungiu, persi in equivoci e scontri di prospettive) sia soluzioni inattese, dall'autoironia allo straniamento.
Come tanti fiumi carsici, in About Dry Grasses (che il senso del titolo lo rivela solo alla fine) le parole, i pensieri, le lettere, gli oggetti scorrono dentro il film, a volte emergendo in superficie e diventando protagoniste di singole sequenze, altre restando nascoste per riaffiorare all’improvviso, come se il film, rotto da momenti di violenza sottile ma pervasiva, non si srotolasse ma si rivelasse per strati sfasati, sovrapposti ma non combacianti. Come i colori dipinti a mano sui ritratti di famiglia che Samet osserva in casa di Nuray, quasi a rimpiangere la bellezza racchiusa da quelle immagini, così lontane eppure così vive rispetto alla rigidità dei suoi scatti in alta definizione.
In ogni immagine che realizza e in ogni conversazione in cui s’imbarca, Samet né vede gli altri, né vede sé stesso, negandosi al suo senso di responsabilità e al suo stesso riflesso. Forse per questo al centro del film c’è un’immagine mancante che nella stupefacente sequenza finale l’uomo compiange di non poter vedere e affida agli occhi del personaggio più bello e ambiguo del film: una ragazzina nei cui occhi non ci sono purezza o innocenza, ma c’è forse l’immediatezza che non è più del cinema e nemmeno di chi, diventato adulto dopo aver abbandonato ogni sogno, vive sfuggendo continuamente da sé e dagli altri.