Dire che I Dannati sia il primo lungometraggio di finzione di Roberto Minervini significherebbe commettere quantomeno un’imprecisione. Nei film precedenti, infatti, il regista marchigiano aveva saputo articolare le esigenze di registrazione della realtà proprie del documentario coi processi mitopoietici della fiction. Un contrassegno estetico tanto preciso quanto specifico di cui anche quest’ultimo lavoro raccoglie il timone. I Dannati marca una sorta di passaggio – più spirituale che linguistico – da una produzione di documentari «girati come se fossero dei film di finzione» a un film di finzione «girato come se fosse un documentario».
Se filtrata da un punto di vista teorico, l’operazione è di per sé assai stimolante. Il documentario, di fatto, certifica ab origine la presenza di uno sguardo in grado di garantire la stabilità di un patto che prevede il passaggio dalla rappresentazione alla testimonianza. La finzione, semplificando brutalmente, crea invece il simulacro di un mondo parallelo. Ed è proprio nell’ibrido orizzonte percettivo che si delinea dalla confusione di queste due istanze che s’inserisce l’ultimo lavoro di Minervini. In altri termini: il film offre un contromodello sia all’inclinazione romanzesca del racconto cinematografico sia al repertorio retorico della cosiddetta nonfiction.
Questo tentativo di ricodifica passa attraverso un’ulteriore scelta forte, ovvero quella di raccontare vicende situate nel passato. Né cronaca né ricostruzione, il film assomiglia a un viaggio nel tempo alla ricerca di un’autenticità naturalistico-espressiva di stampo thoreauviano (l’incipit, con tre di lupi che sbranano una carcassa, potrebbe essere uscito serenamente dalle pagine di Le foreste del Maine). Il film si ambienta infatti nell’inverno del 1862, mentre coordinate leggermente più specifiche sono offerte da una spoglia didascalia in esergo: «nel pieno della guerra civile, l’esercito degli Stati Uniti invia una compagnia di volontari a perlustrare e presidiare le terre di confine non mappate dell’Ovest». Del manipolo di soldati dai volti patibolari si conoscerà ben poco: hanno le divise degli unionisti, un passato da reietti e qualcuno di loro è animato da un ardore religioso come se fosse appena sbarcato dalla Mayflower.
La riproposizione dello spirito (più che del mito) della frontiera non può che imparentare il film col vasto repertorio del western, in particolare con certi esempi di neowestern anti-epico e para-antropologico come Meek’s Cutoff e First Cow di Kelly Reichardt. E forse i momenti più belli del film sono quelli che sembrano usciti da certe pagine di Larry McMurtry (il viaggio in una natura che diventa sempre più ostile, qui attraverso il torpido biancore del manto di neve che si stende sul paesaggio) o di Cormac McCarthy (l’astrazione metafisica di un luogo senza tempo che ha sostituito le norme sociali con le leggi primitive della sopravvivenza). Gli eventi sono di fatto ridotti all’osso, la natura della missione di cui lo scarno nucleo di protagonisti è stato incaricato sembra assumere pian piano una connotazione diversa, le ellissi che scandiscono il racconto (in particolare quella che introduce l’ultimo terzo della narrazione, davvero bellissima) sembrano in fondo rimandare a quell’ideale di «democrazia ottica» di cui parlava proprio McCarthy in Meridiano di sangue, cosicché l’esposizione «non conosce gerarchie dell’essere e abbraccia ed equipara ogni forma di vita e non-vita» (Marco Petrelli – Giulio Segato). Soprattutto all’inizio, il tempo sembra trascorrere nella vuota attesa del nulla in un luogo figurato dove l’anima non può far altro che riflettere se stessa, al cui interno i soldati accendono i fuochi di bivacco, si raccontano qualche storia (vera o falsa che sia non importa), cacciano la poca selvaggina per procacciarsi il cibo e improvvisano persino una partita di baseball.
Da questo punto di vista, I Dannati crea un’evidente linea di continuità coi precedenti film di Minervini. Con l’irrompere, invece, dei convulsi parossismi della guerra si entra in un più rischioso regime metaforico. Il nemico è invisibile o fuori fuoco oppure ancora distante. I volti sono sempre irriconoscibili, ovviamente perché non possono essere altro che una proiezione creata dalle loro coscienze oppure un doppio antagonistico ridotto a pura funzione narrativa. Ma è proprio con questa svolta in quello che Gide avrebbe chiamato «esprit romanesque» che il film tradisce parte delle sue promesse, confortando invece un’inclinazione che tutto sommato tende semplicemente a ribadire la natura illusoria di ogni rappresentazione della realtà, senza discostarsi troppo da quanto Minervini aveva già mostrato in precedenza.