Concorso

Oh, Canada di Paul Schrader

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Nei romanzi dello scrittore americano Russel Banks, dal cui Foregone del 2021 è tratto quest’ultimo film di Paul Schrader (e 25 anni fa Affliction), c’era spesso un personaggio intento a raccontare la sua esistenza a un apparecchio tecnologico: un telefono in Affliction, un magnetofono nell’ultimo La terra della magia (Banks è morto nel gennaio del 2023, e Oh, Canada è a lui dedicato), una macchina da presa in Foregone. Dalla combinazione di questi elementi – il racconto in prima persona e la presenza di un congegno meccanico – Schrader ha costruito il suo adattamento e insieme decostruito il suo protagonista Leonard Fife (Richard Gere), celebre filmmaker americano riparato in Canada nel 1968 per sfuggire al Vietnam e deciso in punto di morte a rilasciare un’intervista per raccontare la sua verità.

In una fotografia, come Schrader fa dire a Fife citando Susan Sontag, il soggetto immortalato vive per sempre; ma in una fotografia che rappresenta la morte, contesta a Fife la studentessa e poi futura moglie Ella (Uma Thurman), a vivere per sempre sarà la morte… Il racconto della vita del personaggio di Banks e Schrader è dunque iscritto nella contraddizione tra questi due termini, la vita e la morte, ovvero, parlando di immagini, la tensione a trascendere il momento, a vivere oltre e altrove (in un Canada che starà sempre aldilà del confine) e la sospensione sul vuoto.

In Oh Canada questo racconto si presenta come una narrazione rapsodica di episodi della vita di Fife, senza che né la macchina da presa che lo riprende, né il film stesso possano arrivare alla verità del personaggio. Schrader allestisce un percorso nella memoria ostruito dai farmaci, dai vuoti di memoria, dalle falsità dell’io, dalla sua vergogna; i flashback che si susseguono non fanno mai capire se Fife mente o no, se ha veramente vissuto ciò che racconta, se bergmanianamente il ricordo è qualcosa di perduto o qualcosa che può rivivere, mentre gli interpreti si mescolano e l’attore che interpreta Fife da giovane, Jacob Elordi, è troppo alto per somigliare a Gere…

Fife rimane offuscato, lontano, un documentarista celebrato che è stato un marito e un padre irresponsabile, un idealista fallito, un codardo. Durante l’intervista chiede continuamente dove sia la moglie, e più che raccontare la sua versione dei fatti vuole essere guardato mentre parla, sapere che lei è lì, disposta ad ascoltare, come in una seduta psicanalitica: la verità è il buco nero attorno a cui ruota il suo passato, e non conta che degli eventi passati esista un ordine o un senso.

Schrader gioca coi vuoti del suo protagonista, con il caos narrativo e i formati del film, che va avanti e indietro, alterna bianco e nero e colore anche nella stessa sequenza, allarga e stringe i bordi, camuffa il digitale con effetto pellicola, realizzando una confusione insieme malinconica (grazie anche alle belle canzoni di Phosphorescent) e un po’ didascalica (e troppo simile a quella di altri film visivamente più curati, come Blonde o Maestro), ma efficace al suo scopo. La vita è racconto, e solo nella confessione, e soprattutto solo nell’ascolto e nello sguardo dell’altro, assume un senso.

Nel bilancio esistenziale del cineasta Leonard Fife non c’è alcuna verità, rivelazione o catarsi: Schrader rimane un modernista, e in Oh Canada, meno rigoroso di altre volte ma per questo più vicino ai suoi film più liberi (Mishima, ad esempio), conta solo l’istante della realtà che si fa immagine, mentendo a sé stessa e potendo così diventare anche cinema.