Sal Nealon (Bryan Cranston) possiede un bar a Norfolk, Virginia. Lo gestisce con ostentata pigrizia e una passione dedicata più agli alcolici che serve che alla clientela che lo frequenta. Un giorno riceve la visita di Larry ‘Doc’ Shepherd (Steve Carell), un vecchio compagno di Marina che all’inizio non riconosce e che poi accoglie con naturale familiarità. Doc, il giorno seguente, porta Sal in una chiesa ad ascoltare il sermone del reverendo Mueller (Laurence Fishburne), con cui i due hanno condiviso un’avventura che è rievocata a singhiozzo durante lo svolgersi del film e che ha segnato le loro vite.
Ma questa non è una rimpatriata: la storia si svolge nel 2003, quando la televisione trasmetteva notte e giorno le immagini della cattura di Saddam nell’illusione di raccontare una vittoria ipotetica e monca. Doc ha contattato i suoi vecchi compagni («oggigiorno puoi trovare chiunque con Internet») perché, ormai vedovo, deve recuperare il corpo del suo unico figlio, caduto in Iraq e in procinto di essere sepolto come un eroe nel cimitero militare di Arlington. Non ha nessuno al mondo, solo quei due vecchi ex soldati, a cui chiedere di non essere lasciato solo. Chi ricorda L’ultima corvè, il film di Hal Ashby del 1973 in cui due sottufficiali devono accompagnare un giovane marinaio a scontare la sua pena in un carcere militare, riconoscerà subito – nonostante qualche cambiamento di nome – i protagonisti di quella storia.
Last Flag Flying è tratto dall’omonimo romanzo di Daryl Ponicsan, che immagina un nuovo incontro, a trent’anni di distanza, di quei tre uomini ormai cambiati, prima dalla guerra e poi dalla vita. Richard Linklater nei suoi ultimi film – Boyhood e Tutti vogliono qualcosa – si è interrogato sul senso del tempo che passa, sulla crescita e sull’attesa, sull’inarrestabile flusso cronologico e sulla sospensione magica di un’età in procinto di aprirsi. In Last Flag Flying, declinando diversamente lo stesso discorso, ricuce una cesura. I tre protagonisti hanno condiviso l’esperienza in Vietnam: la storia li ha cambiati, la guerra li ha segnati, il tempo li ha guariti ma solo in parte. Doc ha intravisto nel placido amore familiare quello che Sal ancora cerca nell’alcol e che Mueller dice di aver trovato in Dio: un modo indolore di stare al mondo, di cancellare un rimosso, di rompere una dipendenza dolente dal passato.
Unica reliquia di un tempo ormai perduto, apparentemente dimenticata e messa in un angolo, è la loro amicizia: adesso che la guerra, come in una coazione a ripetere di lutti, è tornata a presentare il conto, il loro rapporto è l’unica cosa che resiste. L’ultima bandiera che ancora sventola, in attesa di essere ripiegata con cura come quelle che ricoprono le bare dei ragazzi caduti sul campo. Il parallelismo tra le due guerre – Vietnam e Iraq, “musi gialli” e “beduini” – è continuamente evocato mentre i pochi anni che ci separano dal tempo della narrazione mettono già in prospettiva un film che è insieme contemporaneo e storicizzato.
Il tempo che separa il nostro oggi dal presente dei protagonisti funziona come un cannocchiale rovesciato: Linklater lo sottolinea a più riprese, inquadra notiziari tv e catapulta i tre uomini in un negozio a comprare dei telefoni cellulari dotati di piani tariffari talmente convenienti da poter azzerare, in un affettivo futuro ipotetico, la distanza che li divide. Il feroce sarcasmo anarcoide del vecchio film di Ashby ricompare a sprazzi, alternandosi al languore nostalgico di uomini che, di fronte all’ineluttabilità di un presente luttuoso e di un passato ferito, si sentono derubati della loro vita. Se i ragazzi di Tutti vogliono qualcosa erano fogli di carta bianca su cui scrivere il futuro, Doc e Sal e Mueller sono uomini ormai ricoperti di segni e ferite, implacabilmente definiti dal passato che ancora incombe su di loro.
La regia di Linklater (che da Ashby ha ereditato la capacità di sdrammatizzare la tragedia) è lieve come una carezza, sa commuovere e divertire, regala spessore ai momenti di cazzeggio e ricopre di una salutare ironia le situazioni più drammatiche. Last Flag Flying è un film che sa affogare la retorica in agguato – pur non rifiutando un sentimento patriottico acido e obliquo – distogliendo lo sguardo dalla semplice condanna di un conflitto lontano per concentrarlo sulle ferite – e sulla miracolosa capacità di reazione – di una generazione di mezzo, cresciuta e invecchiata tra due guerre ingiuste e speculari. Linklater, con la sua scrittura fluida e il suo stile confidenziale, ci fa conoscere e amare (anche grazie alle interpretazioni di tutti i suoi interpreti, tra cui eccelle uno straordinario Carell) questi tre sbandati irrazionali e inceppati, incapaci di arrendersi a regole e destino, in perenne movimento sulle strade dell’East Coast nella speranza di trovare uno squarcio di luce che illumini, anche per un attimo, le loro vite piegate. Perché, come canta Bob Dylan sui titoli di coda, forse non è ancora del tutto buio, It’s Not Dark Yet.