No one can save anyone
because no one wants to be saved
Devereaux (Gérard Depardieu),
Welcome to New York
Tommaso, ultimo film di Abel Ferrara (presentato a Cannes in maggio e ora al Festival di Siviglia) è tra le opere più devastanti e al tempo stesso disarmanti visti probabilmente dall’epoca di Pasolini, precedente lavoro non-documentario del regista.
Il film, intimo e personale (ma non lo erano anche Pasolini, Welcome to New York, 4:44 Last Day on Earth, solo per citare alcuni dei titoli più recenti?), racconta la vita di Tommaso (Willem Dafoe, alter-ego di Ferrara), regista newyorkese trasferitosi a Roma con la giovane compagna (Cristina Chiriac, vera compagna dell’autore) e la loro figlioletta. Alle ricerche per il progetto di un nuovo film in via di realizzazione si susseguono le scene di vita quotidiana, casalinga, i timori per la bambina che cresce, le sedute in un’associazione di auto-aiuto per ex dipendenti da droghe e alcool, le lezioni di recitazione. Tommaso cerca di condurre una vita normale, comune, di restare sobrio, di prendersi cura della figlia senza che possa essere spaventata da comportamenti che l’uomo – a causa delle sue dipendenze – ha avuto in passato, come gli rinfaccia la compagna. Tommaso fa sforzi immani per essere normale. Si controlla, fa di tutto per non cedere alle tentazioni, per comportarsi bene. Eppure la sua vita è segnata da incubi. La bambina che potrebbe finire sotto una macchina, la compagna che potrebbe tradirlo, le giovani studentesse del corso di recitazione che potrebbero sedurlo. Ma soprattutto due episodi che lo riportano al suo passato di “addicted”. Il primo è un interrogatorio che si svolge in una specie di cupo commissariato, che commissariato non è. A un certo punto chi lo sta interrogando gli chiede “What is truth?” (Cos’è la verità?) e il protagonista risponde “The truth is you are in pain, you have a terrible headache and you’re thinking at the suicide” (La verità è che tu hai male, hai un terribile mal di testa e stai pensando al suicidio) e termina dicendo “This feeling is going away” (Questa sensazione se ne sta andando).
In realtà quella sensazione non se ne andrà mai poiché ciò che sa chiunque sia passato per una forma di “addiction” o compulsione (sia l’alcool o la droga, il sesso o il cibo), si può smettere di bere o di fare uso di sostanze, ma si resterà per sempre un alcoolista o un tossicodipendente. Il “mostro” lo si può controllare ma non se ne andrà mai. Ci vuole una disperata forza di volontà per contenerlo e per non lasciarsi sopraffare. Chi ha avuto esperienze di quel tipo sa quanto lontano può spingersi, che non sono possibili vie di mezzo, che non si può che arrivare a un assoluto che altri non è se non un buco nero. La fine del mondo di 4.44 Last Day on Earth altro non è che questo, il buco nero in cui finalmente lasciarsi andare un’ultima volta, perdere il controllo un’ultima volta. E poi basta. E questa sembra esattamente la trappola dalla quale Tommaso cerca di fuggire e dalla quale mettersi in salvo (con la meditazione, gli esercizi di respirazione, la forza di volontà), fino a ritrovarsi di fronte al suo “specchio”. Sceso in strada per via degli schiamazzi, si trova di fronte un clochard, ubriaco, che sembra non volerne sapere di andarsene. Tommaso lo prega, gli dice che spaventa la sua bambina che cerca di dormire con quelle urla, che quello che sta bevendo è veleno, gli chiede di andare via. L’uomo sorride e scuote la testa, gli domanda da dove venga e in un momento diventa chiaro che quell’uomo, reietto della società, è lui, è lui com’era e come potrebbe tornare a essere. Tutti questi incubi sono il suo senso di colpa che lo pungola, la consapevolezza di non essere in salvo.
L’onestà con la quale mette in scena sé stesso e il suo abisso è quasi commuovente. E è questa onestà che gli ha permesso di raccontare in modo così ambiguo e geniale Dominique Strauss-Kahn e di fare un film che è una dichiarazione d’amore straziante a Pier Paolo Pasolini. In fondo Devereaux in Welcome to New York gridava alla moglie che tentava di “ripulirlo” per non perdere la possibilità di una candidatura politica, “Tu sai chi sono!” (sottointeso, un animale, un porco). Così Pasolini, non vergognandosi della sua compulsione ma accettandola come parte (fondamentale) di sé, diceva “con la vita che faccio io pago un prezzo… È come uno che scende all’inferno. Ma quando torno – se torno – ho visto altre cose, più cose”.
Questa condizione porta con sé una solitudine senza fondo (la macchina da presa che sta addosso al corpo e al viso di Dafoe, lo segue nel suo vagare per le vie della città, non fa che accentuare il suo isolamento). Non è la compagna che può condividere con lui questa sofferenza, non un amico. Tommaso può trovare comprensione negli altri partecipanti alle sedute di auto-aiuto, ma poi i suoi incubi e i suoi mostri deve affrontarli da solo. Abel Ferrara è forse uno degli autori che ha dimostrato in maniera più evidente come il suo cinema (e la sua persona) esistano solo mettendosi a rischio, in una zona di non conforto, di pericolo. Tommaso non fa eccezione. Non c’è nulla di più rischioso dell’accettare di convivere col proprio carnefice. Ma forse, a un certo punto, non rimane altra scelta.