Questa sera, su Cielo, alle 21:15 andrà in onda Casa Howard (Howards End). Pellicola del 1992 diretta da James Ivory (recente premio Oscar alla miglior sceneggiatura non originale per Chiamami col tuo nome), con tre grandi attori del cinema britannico: Vanessa Redgrave, Anthony Hopkins ed Emma Thompson. Ripubblichiamo qualche estratto della scheda che Adriano Piccardi scrisse su Cineforum 319 (acquistabile qui).
Howards End mette in scena con avvelenata sensibilità il binomio società/natura, costringendolo a dichiarare e produrre tutta la crudeltà che è capace di nascondere (quando sia favorito da particolari, privilegiate, condizioni) dietro la più spettacolare esibizione di «bellezza». Il calligrafismo, che spesso viene imputato - e non sempre a torto - a James Ivory quale elemento estetizzante del suo cinema, piacere della ricostruzione e della riproduzione ambientale, che finisce per sovrastare e mettere la sordina all'intenzione critica sottintesa, qui viene brillantemente superato, grazie alla perfetta adesione raggiunta tra immagine e discorso.
La centralità narrativa di Howards House non solo non si trasforma in un alibi per scivolate decorativo-antiquarie, ma chiama in causa senza esitazione un'altra centralità, quella dialettica, che ne fa a tutti gli effetti il luogo destinato, dove le contraddizioni dapprima vengono in superficie per poi ritirarsi sullo sfondo, senza in realtà risolversi. Questa casa di campagna, circondata da un paesaggio che deve il suo indiscutibile fascino all'azione combinata tra libera energia naturale e intervento «educatore» dell’uomo; questo nido, che Ruth, prima moglie di Mr. Wilcox, ha sicuramente amato molto più che non il marito e gli stessi suoi figli ; questo regno dell'ambiguità (familiare, sociale, morale) viene accarezzato dalla macchina da presa nei suoi interni ma soprattutto negli esterni, con una complicità che da sospetta diventa, nel dipanarsi della vicenda, apertamente fasulla. E la smagliante fotografia di Tony Pierce-Roberts (lo stesso di Camera con vista), capace di esaltare il colore incantevole dei fiori, il volume della vegetazione cangiante nelle sfumature e nelle forme, si presta sapientemente al gioco ingannevole della seduzione estetica, che deve fare da contrappunto a quello ben altrimenti feroce della sopravvivenza nel meccanismo dei rapporti sociali.
Anche geograficamente del resto, Howards House non e poi così distante dalla metropoli che ne dovrebbe costituire il polo antitetico. Il cordone ombelicale costituito dai mezzi di trasporto più moderni (illuminante la battuta della zia di Meg ed Helen, quando ricorda di Howard House soprattutto l’orribile passaggio in automobile che ve l’ha condotta) ne facilita il raggiungimento, al punto da renderla quasi un sobborgo della città. L’immagine di rifugio di salvezza, che dà di sé diventa dunque sempre più illusoria; gli elementi a suo carico si accumulano, la sua funzione metaforica di falsa coscienza si fa evidente.
A Ivory, però, non interessa il cinema a tesi. Fortunatamente. Un altro elemento che avrebbe potuto spingere il realizzatore a una lettura preventiva di questo tipo è da vedere nella chiarezza con cui sono individuati i milieu sociali di appartenenza dei protagonisti. La vicenda mette in relazione - secondo lo schema del “triangolo”, tipico del dramma borghese, si potrebbe dire - tre ceti sociali, esemplificati da tre distinte famiglie: l'alta borghesia affaristica, la media borghesia colta e “democratica”, il proletariato in colletto bianco, distante anni luce dalle prime due nonostante i suoi pietosi tentativi di frequentazione. Facile intuire, una volta contestualizzata storicamente la vicenda, chi dei tre sia destinato a funzionare da intruso, con l'obbligo di farsi parte per salvare il rapporto, complicato ma legittimo, degli altri due.
Ebbene, nonostante la precisione con cui sono descritte tutte queste distinzioni sociali e le relative connotazioni ideologiche di cui i relativi appartenenti sono portatori, il film sfugge miracolosamente alla trappola delle facili schematizzazioni. È l'interesse portato prima di tutto alla ricchezza psicologica dei personaggi e alle sfumature in cui questa si stempera, nel variare molteplice dei rapporti che si intrecciano tra loro, a mantenerlo sulla pista giusta. In questo senso, non solo è possibile ma mi pare ineccepibile fare riferimento (come Bruno Fornara in «Cineforum» n. 315, p. 22) al romanzo tardo ottocentesco, del quale, d'altra parte, il cinema nel suo complesso è stato per decenni una sorta di variante aggiornata sul piano degli strumenti espressivi adottati, e a cui anche ora è legato molto più di quanto non voglia apparire. Ma questa è un’altra storia. […]