Questa sera su Spike (canale 49) alle 21:15 Collateral di Michael Mann, presentato fuori concorso alla 61esima Mostra di Venezia. Su Cineforum 439 si possono trovare le schede di Adriano Piccardi (che abbiamo riportato qui sotto) e di Pier Maria Bocchi.
Era mio padre
Max, autista di taxi che conosce L.A. come le sue tasche, non sa nulla di sé. O meglio. Conosce bene l’immagine di sé che vorrebbe mostrare agli altri. Prima di tutto alla madre. Ricoverata in clinica e capace, anche da lì, di controllarne i movimenti e di rivendicare la priorità della sua presenza. Max, che ha la costanza di inseguire un sogno da più di dieci anni. O quella di mantenerlo in vita, al di là di ogni ragionevole dubbio. Il che, forse, almeno dal punto di vista della sua idea di “sentirsi vivo”, è lo stesso. Max, che non ce la fa più a sopportare i milioni di varianti di percorsi tracciabili nella megalopoli e ha bisogno di staccare, ogni tanto. Lo fa, perdendosi nella visione di una cartolina. Immagine di un’isola che gli comunica la sensazione paradossale della libertà proprio in quanto territorio esiguo e segregato – ma già il medium che gli permette di annunciarsi allo sguardo ingenuo del suo “frequentatore” denuncia la sua violabilità di fatto. Max non lo sa, ma la nottata di lavoro che gli si sta aprendo davanti farà precipitare in poche ore un’educazione esistenziale rimasta in stand-by ormai ben più del dovuto. E di tutto questo dovrà ringraziare (?!), alla fine, proprio il sistema che ha dettato finora le condizioni della sua mascherata condizione di minorità. Questione di punti d’accesso. Ci sono vie che mostrano le loro possibilità quando meno te lo aspetti. Per esempio quando ci si sposta sul retro di un residence per attendervi, senza dare nell’occhio, un cliente dall’aria rispettabile ed efficiente. Si può vincere una scommessa su percorsi collaudati – la si vince, infatti, e la fortuna con i semafori è sempre una concessione per non costringere i clienti a brutte figure – e poi, sorpresa, si è costretti a scommettere al buio per pochi metri percorsi voltando un angolo dall’aria innocua.
Vincent è abituato a intrecciare la routine con l’imprevisto. Sa come va la vita e non esita ad affrontarne le variabili con la dimestichezza di chi pensa di non avere – comunque – nulla da perdere. Una cosa soltanto lo ossessiona: eseguire il lavoro per cui è stato pagato. Cioè. Quella parte di lavoro per cui è stato pagato, un tassello, un passaggio essenziale nella catena di cui altri controllano il senso complessivo. Criminalità organizzata come metafora del sistema economico. Metafora? Forse no. Estensione accettata, e condivisa, forse. Non importa. Non importa se Vincent è soltanto un esecutore. Un lavoratore alienato del frutto del suo lavoro. Importa soltanto che Vincent ha incontrato Max, questa sera. Che lo ha incontrato subito dopo Annie. Annie e Vincent sono i due poli che produrranno la scarica elettrica in grado di dare vita a Max. La vita “vera”. O, almeno, ciò che più le assomiglia, date le condizioni correnti. Annie ha appena ricevuto in dono la cartolina, il sogno, il sigillo di un’adolescenza inconsapevolmente invecchiata al di là dei limiti. Ne è rimasta turbata, un poco affascinata, anche. Forse non sa bene che farsene, ma l’ha subito appoggiata sulla sua scrivania. In cambio, il suo numero di telefono: una connessione possibile, per ringraziare di una “disconnessione” virtuale. È il desiderio che conta. E la sua condivisione. Vincent ha incrociato Annie, che aveva appena lasciato il taxi di Max. Ancora non sapeva di incontrare Max. Max non sapeva che avrebbe incontrato Vincent. Che Vincent avrebbe avuto l’incarico di uccidere Annie. Neppure Vincent lo sapeva. È il destino dei padri: uccidere la vita dei figli un attimo prima che la colgano, finalmente. Dopo tutta la fatica che hanno speso per educarli. Per prepararli a viverla. Una storia vecchia: per questo ci coinvolge ancora?
«Father». «Yes son». «I want to kill you». Ecco la risposta. Al termine della notte, Max conosce di sé qualcosa che forse avrebbe preferito non sapere. Ma educazione significa anche questo. Essere condotti fuori: potersi voltare, una volta oltrepassata la soglia che sembrava invalicabile, e guardare da un punto di vista nuovo tutto ciò che prima ci era familiare. Nascere una seconda volta per capire che, da qui in poi, sarà necessario ri-nascere continuamente. Per sopravvivere. Max conosce di sé, ora, qualcosa che probabilmente non sa se amare o temere. Presto per dirlo. O forse è già troppo tardi.
Il rimprovero che ogni generazione ha rivolto a quella che l’ha generata: perché mi vuoi aprire, ad ogni costo, gli occhi? Lasciami sognare. Lascia che io possa restare nel mio sogno come in un mondo che mi appartiene. Vincent e Max si incontrano/scontrano sul confine di questa richiesta. Il sogno è stato affidato nella mani di chi ha promesso (come? con uno sguardo?) di poterne fare qualcosa. Nella giungla d’asfalto della megalopoli, è Vincent che apre la strada a Max. A dispetto delle competenze apparenti. Che lo vogliano o no. Max fa resistenza, si espone, anche. Ma Vincent non demorde. Qual è il suo compito? Non il suo lavoro. Anche a Vincent sfugge qualcosa di questa notte esagitata: quel mazzo di fiori che porta alla anziana signora ricoverata lo definisce in una funzione che non avrebbe mai immaginato. Lo conferma in un ruolo che era già suo, senza saperlo, da quando si è seduto in quel taxi. E, come tutti i padri, alla fine dovrà cedere il passo senza sapere se quello che ha dato servirà a qualcosa. Vedere i padri andarsene non è rassicurante, anche se comunica una sensazione di libertà. Questa è l’eredità che resta ai figli mentre guardano il passato allontanarsi come una metropolitana nel mattino. Abbracciando una donna di cui non sanno nulla e da cui si aspettano tutto.