Questa sera, su Italia 2, alle ore 21:30 andrà in onda King Kong. Kolossal del 2005 diretto da Peter Jackson, remake del classico datato 1933. Su Cineforum 451 (acquistabile qui) Andrea Bordoni, Matteo Marino e Matteo Bittanti scrissero un lungo articolo in occasione dell'uscita del film nelle sale. Ne riproponiamo alcuni estratti qui sotto.
Peter Jackson ci è riuscito. Ci è riuscito perché King Kong vibra di una passione genuina, commovente, rara da trovare in kolossal che devono sbancare il botteghino. Ci è riuscito perché nelle scene d’azione sono palpabili il divertimento e l’inventiva senza ritegno del bambino di nove anni che, incantato dalla stop motion di Willis O’Brien, decide di rigirare in Super8 il finale del film, con un Empire State Building di cartone scalato da un pupazzo rivestito con uno scampolo di pelliccia della madre. […] Ci è riuscito perché, dopo la maturità acquisita con l’adattamento di Il Signore degli Anelli, ha scartato una sua prima sceneggiatura troppo hollywoodiana per approfondire psicologie e motivazioni dei personaggi, riportandoli, dopo gli ammodernamenti dei numerosi sequel e remake, nella New York della Depressione, dove gli operai che costruiscono grattacieli sempre più alti vivono in fatiscenti baracche. Ci è riuscito perchè, come in Mulholland Drive, Naomi Watts è perfetta nel ruolo di attrice alle prime armi, nella vita ragazza semplice e a momenti ingenua, che davanti alla macchina da presa, subito, innamora ed emoziona. Ci è riuscito perché la massa digitale del gorilla è mossa dall’interpretazione di Andy Serkis, che conferisce a King Kong anima rispettandone l’animalità.
Il rapporto tra i due protagonisti è convincente e ricco di sfumature, per questo la scena rischiosissima (al confine col ridicolo) dei giochi sul lago ghiacciato di Central Park miracolosamente è azzeccata e anzi commovente: la città è scomparsa, il pericolo sembra scampato e per Kong, che non conosce il concetto di destino e vive il momento, è la massima felicità. Ha la natura intorno a sé, la libertà riconquistata, ha lei. E a differenza del film originale, ma come nel mito originale (da Amore e Psiche a La Bella e la Bestia), qui l’amore impossibile è ricambiato, rendendolo ancora più struggente. Ci è riuscito perché i sottotesti che rendono imprescindibile il capolavoro di Cooper e Schoedsack, come ad esempio la riflessione sullo spettacolo, il tema del viaggio cinematografico e il melodramma dell’amore diverso, ci sono tutti, rispettati e ripensati al tempo stesso. […] Ci è riuscito Peter Jackson a far tornare il re Kong. […]
[…] Fin dagli esordi, la sala cinematografica si è connotata come luogo in cui è possibile mostrare, in modo documentario o fantastico, quello che comunemente non si può vedere. I fratelli Lumière sguinzagliavano per il mondo i loro operatori per offrire al pubblico esotiche meraviglie (cinema come estensione del corpo, dello sguardo, potenziamento dei sensi), mentre Georges Méliès faceva intraprendere con i suoi trucchi viaggi fantastici (cinema come manipolazione, illusione, di nuovo potenziamento, ma della propria immaginazione).
Quando nel ’33 usciva il primo King Kong, esso nasceva sotto il segno opposto e complementare di questi pionieri del cinematografo. […] King Kong è mito di massa perché unisce la spinta in avanti dell’innovazione tecnologica alla discesa nel primordiale, nell’atavico, rendendo visibili, e coesistenti, la preistoria, la scimmia darwiniana, i primi ominidi. È sorprendente notare come assistere oggi a un remake di King Kong significa anche vedere replicato, con le dovute differenze, questo complesso retroterra.
Già prima che lo girasse, Peter Jackson ci appariva come «un Lumière incrociato con un Méliès [...]. Da una parte realizza o inserisce nelle sue pellicole documentari (ma attenzione: sono tutti falsi), dall’altra accompagna gli spettatori dentro mondi immaginari (ce n’è uno in ogni film, da quello alieno del suo debutto al Quarto Mondo, alla Terra di Mezzo), per mostrare i quali fa ricorso certamente a effetti speciali via via più elaborati, ma il più delle volte a null’altro che alle meraviglie naturali della propria terra». E ancora, i prodigi di O’Brien trovano oggi il loro corrispettivo nella sfida della Weta, casa di produzione neozelandese di effetti speciali che ha spezzato il monopolio della Industrial Light & Magic. Con Gollum e King Kong, i primi personaggi in motion capture totalmente convincenti, la Weta è riuscita, facendo svanire l’attore dietro uno strabiliante travestimento digitale, a conferirgli paradossale visibilità e a catalizzare su di lui l’attenzione tanto da far ipotizzare rivoluzionarie candidature agli Oscar.
La riflessione dell’originale sullo spettacolo e i suoi limiti diventa nel film di Jackson una metafora della seduzione del cinema cosiddetto commerciale, cinema che lo stesso Jackson fa. Ognuno dei protagonisti ne è a suo modo un esempio.
[…] Alla luce di questi plurimi livelli di lettura, possiamo comprendere la citazione di Conrad da parte di uno dei personaggi del remake di Jackson come riferibile sia a King Kong quale forza della natura, sia alla spedizione che porta a confrontarsi col proprio “cuore di tenebra”, sia soprattutto al rapporto tra spettatore e schermo cinematografico: «Non potevamo capire perché eravamo troppo lontani e non potevamo ricordare perché stavamo viaggiando nella notte dei tempi. Siamo abituati a vedere la forma incatenata di un mostro soggiogato, ma lì – lì si poteva vedere qualcosa di mostruoso, e libero».