Questa sera, su Italia 2, alle 21:30 andrà in onda La cosa. Film del 1982 diretto dal regista statunitense John Carpenter. Ripubblichiamo alcuni estratti della recensione a firma di Stefano Bortolussi uscista su Cineforum 222 (acquistabile qui).
[…]Abituato a trasformare in enormi successi di cassetta i “soggetti bassi” delle sue sceneggiature horror, Carpenter si dev'essere chiesto a lungo, quest'estate, i perché dell’insuccesso pressocché totale - leggasi sia di critica che di pubblico - della sua ultima fatica, La Cosa (The Thing), rifacimento del famoso film di Hawks-Nyby. Il problema non è così semplice, perché il film, come si dice, “funziona"; ha un buon ritmo e soprattutto lo mantiene per quasi tutta la sua durata, contribuisce a confermare il rozzo talento di Kurt Russell, si avvale di alcuni fra i più straordinari effetti speciali fino ad ora visti sugli schermi (siamo già al superamento del lupo mannaro di Landis, di quello di Dante, dell'uomo-mutante di Russell... qui siamo molto, molto avanti).
La questione può essere impostata a due livelli. Per quello che possiamo aver capito, La Cosa non è piaciuto ai critici ed ai “dottori” per un presunto atteggiamento di ambizione e di “spocchia” da parte di Carpenter, che, stanco di rovistare nella “spazzatura” della serie B, ha voluto cimentarsi con i grossi budget, con la logica della produzione di serie A, e soprattutto con un classico di uno fra i più amati registi del “classico” cinema americano.[…] D'altra parte il film ha deluso il pubblico per quella sua palese “freddezza”, per quel suo essere possibilità più che conclusione, per una sotterranea aria di svogliatezza che sembra uscire dai fotogrammi di Carpenter: come se l'ambientazione polare avesse contagiato sceneggiatori, regista, interpreti - tutti tranne l'orribile mostro, che a dire il vero di freddezza ne dimostra ben poca, non facendo altro che mangiare e riprodursi. Ambedue le considerazioni, naturalmente, peccano di approssimazione e faciloneria; ma vanno entrambe piuttosto vicine alla segreta realtà di un film come La Cosa, al perché del suo essere al tempo stesso così poco riuscito e così affascinante. […]
Ciò che in primo luogo acquista evidenza è la diversità di quest'ultimo sforzo registico di Carpenter, rispetto a quei piccoli classici dell'orrore che ci aveva regalato le scorse stagioni. Ciò, naturalmente, non deriva affatto da un sovrappiù di presunzione da parte del regista; semmai da una precisa scelta stilistica ed espressiva. Laddove infatti Carpenter, con singolare abilità, ci aveva incatenati con l'arte del suggerimento, della minaccia […] nella Cosa aderisce pienamente- e con una certa propensione all'eccesso- a quella linea comune del “nuovo horror” statunitense che vuole tutto detto, dichiarato, mostrato sino alle sue ultime conseguenze.
Abbiamo tempo addietro visto cosa ciò potesse significare per un Landis, per un Dante, per un Teague: un’aderenza quasi maniacale all'idea che orrore è il disvelarsi di un segreto, la messa in mostra di un oltre che è spesso estensione dell'umano, inteso nel senso più «basso", degradato: estensione della fisicità, della corporeità, dell’aggressiva sessualità. Carpenter invece, con i suoi primi horror, si manteneva in qualche modo qual di quan della barriera, insinuando e suggerendo, alla maniera dei classici, che l'ombra fosse ben più spaventosa dell'irrompere del mostro, che l'attesa fosse più terrificante della fuga, che la nebbia (ciò che impedisce di vedere) fosse più minacciosa della luce (ciò che consente di vedere).
Stranamente, e con la sola giustificazione dell'omaggio affettuoso ad un film particolarmente amato (già citato, tra l'altro, dallo stesso Carpenter in Halloween), La Cosa ci porta dritti nella stessa regione in cui decine e decine di B-movies (i cosiddetti splatter · movies) vivono e si nutrono di carni lacerate, di teste mozzate, di membra divelte, dell'orrore mostrato. Da questo punto di vista, anzi, La Cosa rappresenta un punto di arrivo difficilmente superabile: mai vista unione cosi stretta di organico ed inorganico, ricerca di un'immagine nuova per i mostri che il sonno della moderna ragione genera fra le ultime leve registi che americane. Mai vista, soprattutto, tanta luce. Perfino il Lupo mannaro americano a Londra di Landis, che pure trasportava genialmente la campagna nella città, la notte nel giorno, l'incubo nel sogno, era così sbilanciato. Qui il bianco delle nevi e dei ghiacci dell'Antartide illumina le zone oscure, e quando negli interni la luce naturale viene a mancare, ci pensano lanterne, fiaccole, falò, incendi, scoppi.
Carpenter si tradisce, allora, e sceglie la violenza dell'immagine, la sua freddezza ed il suo orrore “puro” non contaminato o addirittura nascosto da zone d’ombra. Il mostro senza forma, l'alieno che si impadronisce delle forme umane, che duplica, che spossessa, che divora, non ha più bisogno di nascondersi. Può fare tutte le sue brave cosine alla luce del giorno. È abbastanza potente da non aver bisogno di celarsi ed è al tempo stesso abbastanza affascinante da giustificare inquadrature dilatate e lunghissime, sequenze che sembrano non avere mai fine, carrelli, piani americani, primi piani, dettagli, in una divorante ma in fondo lucidissima confusione che azzera lo stile, lo stravolge, lo strazia. […]