Questa notte, su Rai Movie, alle 2:05 andrà in onda The Master. Sesto film scritto e diretto da Paul Thomas Anderson, con Joaquin Phoenix, Philip Seymour Hoffman e Amy Adams. Su Cineforum 521 (acquistabile qui) dedicammo al film uno speciale e, per l'occasione, ripubblichiamo qualche estratto del pezzo a firma di Fabrizio Tassi. Inoltre, The master, si aggiudicò il secondo posto nella classifica che, un anno fà, dedicammo ai 25 migliori film del XXI secolo (articolo di Federico Gironi qui).
Uomo, animale, servo
«Se trovi il modo di vivere senza servire un maestro, qualunque maestro, vieni a raccontarcelo. Saresti la prima persona nella storia del mondo». Ha ragione Lancaster Dodd, The Master, stretto nel suo gessato impeccabile, dentro quella stanza enorme, vuota, e la luce, tanta luce (però fredda, spenta), che penetra alle sue spalle da una finestra gigantesca. Vorrebbe apparire determinato, distaccato, ma poi comincia a cantare: «E voglio andare su una dolce barca in Cina...». Freddie Quell sorride, con quel suo sorriso storto, l’espressione sbilenca. […] Ha ragione Lancaster Dodd: nessuno è mai riuscito a fare a meno di un maestro, così come di un padre o di un padrone. Il fatto è che, forse, per crescere non si può farne a meno. Il fatto è che, però, per diventare uomini davvero bisogna “uccidere il maestro”, contestare il padre, combattere il padrone. Salvo poi ritrovarsi a servirne un altro, a riverirne uno nuovo, a illuderci di essere davvero liberi quando abbiano semplicemente cambiato “ditta”, famiglia, devozione.
Per Lancaster la libertà è una questione mentale. In uno dei suoi esercizi psico-spirituali, obbliga Freddie a muoversi da una parete a una finestra, chiuso in una stanza, avanti e indietro, fino a quando riesce a vedere oltre il muro e il vetro, a non farsi ingabbiare dalla materia. Lui, però, ha un’altra idea della libertà: assomiglia più a una moto che viaggia a tutta velocità verso l’orizzonte, nel piatto panorama di una pianura desertica, fino a diventare un puntino che sparisce lontano.
Il maestro si ostina a ripete che «l’uomo non è un animale». Eppure l’ex soldato Freddie sembra la dimostrazione in carne e ossa dell’esatto contrario. Se ne va in giro con una posa scimmiesca, ingobbito in avanti, con le mani che si tengono i fianchi, il volto contratto in uno spasmo. Freddie vuole solo fornicare, unirsi in modo carnale e animalesco con qualsiasi esemplare dell’altro sesso. Però dobbiamo aspettare la fine della storia, l’ultima sequenza, per vederlo finalmente unito a una donna, incontrata per caso in un bar, dopo l’ultimo addio al maestro. Prima è tutta una questione di desideri ferini, di bestiale necessità, sintetizzata in quel feticcio di sabbia con cui Freddie copula sulla spiaggia, durante la guerra, anzi, meglio, in quella dimensione alienante, in quella terra di nessuno, in cui si ritrovano i soldati quando non devono più uccidere o cercare di non morire, e attendono di essere riammessi nella “società”, dove bisogna re-imparare a vivere, non solo sopravvivere. Paul Thomas Anderson non ci mostra l’orrore della guerra. Non ce n’è bisogno. Ci mostra il guscio vuoto, il corpo deformato, di Freddie Quell, pieno solo di istinti e voglie. Lui ha visto il vuoto, la mancanza di senso, e cerca di annegare quella visione dentro la sua pozione magica, il veleno, un cocktail di alcolici, medicine, benzine, vernici, con cui si sbarazza di sé.
Il maestro vede in lui la sua stessa disperazione, quella che si vanta di aver sconfitto. Lancaster, che si presenta come «scrittore, medico, filosofo, fisico nucleare, uomo irrimediabilmente curioso», è uno che «combatte col drago». Ecco perché sceglie Freddie come cavia e protégé, come figlio adottivo, guardia del corpo, servo, braccio destro, nemesi, erede, specchio, orizzonte perduto. Il suo metodo non è così folle: domande a raffica, a ripetizione, apparentemente senza logica, in modo da scavalcare ogni resistenza psicologica, andando oltre la superficie dell’ego, in profondità, con una nuova consapevolezza. È splendida la sequenza del “procedimento”. È lì, per la prima volta, che vediamo il vero (?) Freddie Quell, figlio di un padre ubriacone e di una madre finita in manicomio, soldato che ha ucciso, uomo che ha detto addio all’unica possibilità di felicità, alla donna che ha amato, una ragazzina abbandonata nel passato. Alla fine si guardano, Lancaster e Freddie, e si riconosco, commossi. Uomini. Per resistere a tutto quel dolore ci vuole proprio un sorso di pozione...
[…] Dicono che il film alla fine zoppica e rimane irrisolto. Come se fosse possibile risolvere ciò che è irrimediabilmente, metafisicamente, incompiuto. (In realtà dice quasi troppo, quando Lancaster proclama la libertà impossibile, e alla fine non può fare altro che ribadire la solitudine a cui sono condannati entrambi, come tutti). Dicono che intendesse parlare di Scientology e Ron Hubbard. Sì, certo, ma anche no, e la cosa, visto il film, è talmente irrilevante che può interessare al massimo i cronisti o i “coloristi”. Dicono che in fondo questa è solo una fredda esibizione di bravura di Paul Thomas Anderson. Io, personalmente, mi sono scottato.