Nel corso del tempo, il capolavoro di Wim Wenders del 1976, compie quarant’anni e Viggo distribuisce in sala la versione restaurata del film. Un’occasione per rivedere su grande schermo un’opera fondamentale del Nuovo Cinema Tedesco e per «Cineforum» di ripescare dal proprio archivio un pezzo di Davide Ferrario sul legame tra Wenders e il rock e un altro di Angelo Signorelli sul ruolo del cinema e delle immagini nel definire la natura del film e dei suoi personaggi.
IL ROCK NEL CORSO DEL TEMPO di Davide Ferrario
(«Cineforum» 180, dicembre 1978, pp. 785-791)
[…] Chiunque venga coinvolto in una delle storie raccontate nei film di Wenders non può non rimanere colpito dal grado di integrazione della musica alle immagini – in modo specifico dal continuo intersecarsi del rock’n’roll con il percorso narrativo del cinema. Ho precisato la matrice di questa musica perché è una questione di fondamentale importanza: infatti la musica non viene quasi mai impiegata da Wenders in funzione “bella” o di accompagnamento puro e semplice, ma è un termine di riferimento culturale che reagisce continua mente in combinazione con le immagini.
Il rock’n’roll che Wenders ama e utilizza (si deve intendere il termine in una accezione molto ampia, comprendente II rock’n’roll vero e proprio di Chuck Berry – che appare di persona in Alice nelle città – Dylan, i Rolling Stones e in generale tutta la musica giovanile di origine inglese e americana) è uno dei segni più vistosi e più importanti della cultura di massa. Probabilmente è anche il prodotto che per la sua incidenza sociale armonizza meglio il proprio consumo con “educazione” del suo pubblico. Dirò in breve cosa intendo per educazione.
Contrariamente all’idea assai diffusa che la cultura di massa sia in sostanza organizzazione del consenso, bisogna ammettere invece che il rock’n’roll, nell’ambito delle strutture ideologiche del capitalismo, ha svolto anche (ma forse soprattutto) una funzione critica e di diffusione del dubbio nei con fronti dell’ordine costituito (dire liberatoria è probabilmente eccessivo). Il rock’n’roll è stato educativo perché ha fornito a una generazione (forse a più di una) il primo indizio di una identità. Questo è avvenuto soprattutto nelle realtà culturalmente e socialmente più disperse dei dopoguerra (come ad esempio la Germania), dove la colonizzazione ideologica («Gli americani ci hanno colonizzato il subconscio», dice Robert in Nel corso del tempo) comportava – all’interno del suo progetto totalizzante – più di un elemento contradditorio. Il rock’n’roll prodotto di massa destinato insieme ad altri a distruggere e sostituire una tradizione culturale, recava una carica eversiva indefinita che venne assunta individualmente da molti giovani quale forma della propria opposizione a un mondo e a una storia in cui non sì riconoscevano (non tan to per propria scelta, quanto per l’obiettivo disorientamento che contraddistingue il periodo postbellico fino ai nostri giorni).
[…] I termini sociologici possono apparire eccessivi, ma definiscono oggettivamente quell’esperienza di massa che Wenders ricorda come storia personale: «(Il rock’n’roll) fu la prima cosa non ereditata che, come chiunque altro, mi sono trovato ad apprezzare. Non c’era nessuno ad insegnarmi ad amarlo. C’era anzi più d’uno che provava a farmelo disprezzare, che mi ripeteva quanto fosse inutile e di cattivo gusto. Ma siamo ancora troppo nel generico: era la stessa cosa per chiunque altro. Proprio così... Ma, in un certo senso, il rock’n’roll mi ha spinto incontro a tutto, mi ha spinto a fare del cinema. Senza il rock’n’roll oggi sarei forse un avvocato. E tanti altri sarebbero qualcosa di diverso».
È chiaro che le potenzialità del rock’n’roll, proprio per il loro carattere contradditorio, non si sono evolute in senso rettilineo, né hanno portato alla rivolta. Potevano, però, soprattutto in Europa, concorrere a formare una sensibilità e un codice positivamente di massa: «Il rock’n’roll l’ho sempre concepito come pura forma. Varie volte mi sono accorto che gli inglesi e gli americani potevano ascoltarlo senza rendersi affatto conto delle parole. E ne ho provato a volte spavento: non me lo sarei mai aspettato. Sapevo di non curarmi delle parole, dato che a quel tempo il mio inglese non era molto buono. Così diventava pura forma: era una lingua, e indubbia mente c’erano delle parole, ma mancava il messaggio. Era giusto così... I Beatles hanno registrato I Wanna Hold Your Hand in tedesco, il che mi ha messo terribilmente in imbarazzo. Non era così che lo volevo. Volevo che fosse comunicazione, ma non a livello del significato. E quando Kamikaze e King of the Road cantano Just Like Eddie è un mezzo di comunicazione a livello di nonsense. Puro divertimento. […] «L’esclusiva attenzione prestata dagli ascoltatori al significante neutralizza gran parte dei contenuti reazionari e qualunquisti dei testi della musica rock e crea una disposizione formale, un corridoio percettivo che permette di convertire la musica in immagini cinematografiche e viceversa: si stabilisce come principio estetico la polivalenza e l’intercambiabilità dei costituenti della cultura di massa».
Difatti «… grazie al rock’n’roll ho cominciato a pensare all’immaginario, alla creatività come uniti alla gioia. L’idea di avere il diritto di godere di qualcosa. È stato all’incirca lo stesso quando ho cominciato a fare dei film. Era tanto uguale che quando giravo la sola cosa da fare era prendere una canzone e unircela. È così che ho cominciato a fare i film: giravo qualcosa, senza montarlo. Poi mi mettevo a cercare una canzone che ci stesse bene insieme». E ancora: «All’inizio filmare era un surrogato, la compensa zione di non essere in grado di suonare».
[...] Lontano dal descrittivismo e dall’impressionismo, Wenders opera una traduzione continuamente reversibile dei mass media l’uno nell’altro, in particolar modo del cinema e della musica. Questo rapporto di complessa simultaneità è rintracciabile nel corso di tutta la produzione wendersiana. Si prenda Rudiger Vogler in Nel corso de! tempo: interpreta un personaggio (Bruno Winter) che si assume un ruolo stabilito dalla tradizione della cultura di massa, musicale e cinematografica: l’eroe solitario, il re della strada (King of the Road).
Il personaggio de film fa trasparire il personaggio del cinema, e richiama anche i ruoli già sostenuti da Vogler negli altri film di Wenders; ma alla fine (dopo la notte in cui i due si prendono a pugni) è una canzone (King of the Road di Roger Miller) che ribadisce e insieme rettifica la condizione di Bruno. Non solo, ma la canzone non è fuori dal film, ma dentro II film, suonata al mangiadischi e canticchiata da Bruno stesso. Allora, Rudiger Vogler è Bruno Winter? Bruno Winter è King of the Road? Oppure King of the Road è Rudiger Vogler? Di chi sta parlando la canzone? Cosa c’è all’inizio: la musica, il cinema, il film? I segni sono sovraimpressi nella rappresentazione e realizzati simultaneamente; la modernità e la forza di Wenders hanno qui la loro prima origine. I personaggi dei suoi film si muovono in modo assolutamente naturale in mezzo a questi riferimenti, che fanno parte del paesaggio e del mondo cui i personaggi stessi appartengono. Peraltro, il rapporto che questi ultimi istituiscono con essi non è mai di passività, ma è un rapporto aperto e talvolta conflittuale.
NEL CORSO DEL TEMPO di Angelo Signorelli
(«Cineforum» 180, dicembre 1978, pp. 770-784)
Nel corso del tempo è un film conteso tra staticità e moto, tra fotografia e cinema, tra riposo e azione, tra rassegnazione e cambiamento. […] È un costante entrare e uscire dalla rappresentazione, un abbandonarsi al fascino che riproduce e un guardare con distacco il corso degli eventi-
Anche i miti che attraversa cambiano di segno: le strade non sono senza fine come nei film on the road dell’ultima, ma non meno artificiale e produttiva, cinematografia americana; l’amicizia ha perso i caratteri di virilità e di “eroismo”; l’automobile finisce in un elemento che non gli è proprio. Il grosso camion, goffo e simpatico, non ha nulla di violentemente liberatorio, ha più le sembianze di un relitto che va alla deriva, col suo carico di antichità e di ricordi, e di bellezze non scoperte. La fotografia stessa, intensa e morbida, trasmette una sensazione di materialità, di rispettoso ma lucido contatto con i fenomeni.
Nel corso dei tempo è un film sugli ideali privo di idealismo, un film dove il realismo è connotativamente funzionale alla riduzione “terrena” dell’eredità mitico-intellettuale. Un film di superficie quindi, “bidimensionale”, che disegna una geometria di linee spezzate, un film alterno che ricostruisce una temporalità fenomenica, con l’intima interazione di passato e presente, di continuo e discontinuo. Così il mito, i modelli, le credenze rivivano la loro intensità ma corretta dalla lontananza delle origini, dalla coscienza del tempo che solo consente la comprensione del vissuto e del vivente. Wenders interviene nella storia, soggettiva e oggettiva, manipolando oltretutto la temporalità cinematografica, dilatando e comprimendo, in un montaggio alternato di narrazione e di osservazione documentaristica. Il film è anche una ricerca di luoghi perché è stato girato durante un viaggio, come indicano le didascalie iniziali, e quindi è dentro la storia: così le immagini vengono trovate e lasciate, perché dopo c’è ancora qualcosa. Nulla viene distrutto, poiché la rivoluzione è improbabile, ma qualcosa viene abbandonato nel corso del tempo.
[…] Come negli altri film di Wenders, il richiamo all’infanzia del cinema ha la funzione teoretica di una definizione di struttura, di statuto ontologico del medium. In questo c’è come una volontà di straniamento, un’attenzione costante alle caratteristiche del linguaggio proposto. I film di Wenders sono un doppio rispecchiamento, esterno e interno, e chi ne tenta la lettura si trova ad essere come Bruno, il proiezionista, che può assistere alla proiezione con l’occhio sugli ingranaggi. Lo sguardo di Wenders è rivolto anche alla tecnica; più avanti Bruno, mostrando la croce di malta (il dispositivo che controlla il trascinamento della pellicola “trasformando il movimento dì rotazione in movimento di trazione”) afferma in modo perentorio che senza quell’aggeggio l’industria del cinema non sarebbe mai esistita.
[…] Il significato di Nel corso del tempo è affidato soprattutto all’immagine, e quindi ai gesti, ai movimenti, agli spazi, alla macchina da presa che in crescendo tutto hollywoodiano sta addosso ai personaggi e li interpreta. Il riferimento al muto è quindi insieme un omaggio, ma in primo luogo l’esigenza di ristabilire una colonna visiva che non funga da semplice supporto alla colonna sonora, che non sia “rimando” o “assenza”, ma che conservi l’autonomia e la realtà dell’espressività che gli è propria. Il bianco e nero netto, marcato, pulito accresce la forza di denotazione del film, ne rafforza il tono analitico; ciò che vediamo non è metafora, ma significazione diretta e storica, perché nelle immagini riconosciamo le immagini della nostra esistenza. Robert e Bruno fanno parte della nostra memoria e della nostra angoscia, della nostra razionalità come dei nostri sentimenti e del nostro amore per il cinema. Emanano un fascino intellettuale perché vivono come rappresentazioni di esperienze e sono figure concettuali, movimenti di pensiero e sguardo sulla concretezza dei bisogni e dei desideri di una generazione.
Il cinema di Wenders possiede quindi un valore di inventario, di cosciente viaggio nell’immaginario, nelle sue nuove combinazioni e nelle forme ereditate. E la riscoperta coincide con l’opposizione al cinema come oggi è diventato; il valore restituito all’immagine si contrappone non all’avvento del sonoro come possibilità linguistica, ma all’avvento del sonoro come musica totalizzante, come chiacchiera politica, come spasimo pornografico.