Ettore Scola ci piace ricordarlo così, con le voci dei nostri collaboratori, film per film, film amato dopo film amato, costruendo un po' alla volta il suo ritratto.
1968: Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l'amico misteriosamente scomparso in africa
Se nella commedia all'italiana il grottesco rappresentava la chiave di risoluzione paradossale della tensione tra dimensione pubblica e dimensione privata, in molti film dell’ultima metà degli anni Sessanta la tensione resta invece irrisolta e l’individuo bloccato nel punto massimo di criticità del suo spazio esistenziale. Per questo, la soluzione, l’unica apparentemente possibile, è l'evasione o, come nel caso di questo film, la fuga. Scola sceglie la commedia amara – un po' isterica e sopra le righe come i suoi protagonisti – per raccontare lo strampalato processo di modernizzazione vissuto dall'Italia. Lo stesso che per il Pietrangeli di Io la conoscevo bene o il Ferreri di L'uomo dei cinque palloni si poteva esorcizzare solo con il suicidio. Per Scola no. Con qualche momento di montaggio un po' psichedelico, il lancio di una poltrona gonfiabile Blow di Zanotta (l'oggetto di design costruisce in quegli anni la fisionomia estetica di un immaginario di classe) e tre battute folgoranti, Scola riesce a iconizzare l'alienazione dell'individuo di fronte a una modernità travolgente. "Dottore, si vuol buttare anche lei?", "Non lo so, non ho le idee chiare!".
Chiara Borroni
1969: Il commissario Pepe
Un Tognazzi perfettamente in parte ci accompagna, in questo piccolo film sporco e cattivo, alla scoperta dei molti doppifondi che la refrattaria superficie della provincia veneta nasconde agli occhi di chi vede soltanto ciò che crede di guardare e di ascoltare. Quello che conta veramente si muove, invisibile, tra le cose e le persone determinandone le relazioni, le funzioni, il valore di scambio sociale. È il 1969 quando Il commissario Pepe esce nelle sale: si respira materialismo storico e dialettica marxista nelle università e nelle fabbriche, ma Scola sceglie un contesto ovattato à la Chabrol per articolare il suo personale punto di vista sui risultati prodotti nella testa e nell'anima degli italiani da vent'anni di Democrazia Cristiana; per farlo si affida alla rabbia incontenibile di un fool motocarrozzinato e allo spleen impotente di un commissario troppo intellettuale. Per battute e situazioni, Il commissario Pepe è un film che potrebbe essere stato realizzato ieri e l'indignazione sfinita che lo attraversa esprimerebbe la stessa verità, il medesimo senso di sconfitta.
Adriano Piccardi
Un’operina di medio valore che si potrebbe mettere fra la già lunga esperienza di Scola sceneggiatore e l’aspirazione a un ruolo consolidato nella regia. Una sorta di epigono della più caustica e felice “commedia di costume”, quella che seppe dare il meglio fra il 1959 e il 1964/65, con Ugo Tognazzi, una delle maschere che avevano portato vitalità nuova al nostro cinema medio e popolare.Un altro buon motivo per ricordare Il commissario Pepe è la sua parentela col Germi di Signore e Signori. Roma è lontana, al contrario di quel che normalmente accadeva nella commedia del tempo, e Scola raccoglie una sorta di invito: andare nella provincia veneta per colpire con la satira il suo ipocrita “catto-capitalismo”. Con la collaborazione del “nativo” Luciano Vincenzoni, nel 1965 Germi aveva voluto staccarsi dai vizi siciliani per denunciare quelli di certa provincia settentrionale; Scola, dal canto proprio, cercò di aggiungervi un più esplicito carattere politico.
Tullio Masoni
1971: Permette? Rocco Papaleo
Scola giunge a misurarsi – come regista – con gli umori acri e beffardi della commedia all’italiana (a cui egli stesso, con il suo passato di sceneggiatore, aveva dato lustro e alimento) quando ormai quella stagione gloriosa volgeva malinconicamente al tramonto. Nell’intonazione garbata, quasi fiabesca della prima parte di Permette? Rocco Papaleo si coglie un’aria crepuscolare. Poi, man mano che il racconto procede, s’insinua una nota più sorda, di cupo risentimento, destinata a deflagrare in un finale amarissimo, disperato. Un film “minore”, forse, ma di tutto rispetto, dove è possibile leggere la scorrevole professionalità, la finezza, la capacità d’osservazione che erano ancora in quegli anni il vanto del cinema italiano di genere. Di lì a poco tutto sarebbe cambiato.
Nicola Rossello
1972: La più bella serata della mia vita
Assieme a Un borghese piccolo piccolo di Monicelli (1977), la condanna definitiva della piccola borghesia furba e arruffona, arrivista e imbrogliona oggetto della commedia all'italiana del decennio precedente: un segno del mutamento dei tempi, prima ancora che delle ideologie e dei modi di pensare – e dunque leggere – il Paese.
Lapo Gresleri
1974: C'eravamo tanto amati
Durante le feste, stavo giocando con le mie figlie e mio nipote nella casa di mio fratello, che a sua volta armeggiava col camino. La tv era accesa: forse su Rai Yoyo, o forse c’era su il dvd di Monsters University. Poi, però, per qualche motivo (posso aver letto qualcuno su Twitter, ma può anche essere stato un caso), ho messo su RaiTre, dove stavano dando C'eravamo tanto amati. La scena era quella, meravigliosa, in cui Gianni incontra Luciana dopo tanti anni e lei risponde: "Eh ma io no!" e lui, Gianni, non può fare altro che replicare, basito: "Ah". Come ogni volta, ma forse un po’ di più, mi son venute le lacrime agli occhi. Ho stretto la mano della madre delle mie figlie e ho sospirato basito come Gassman, ma per motivi opposti. Ettore Scola era anche questo.
Federico Gironi
1976: Brutti, sporchi e cattivi
Nel 1976, in Italia, i rappresentanti del Potere si riuniscono in un eremo chiamato Zafer per espiare i propri peccati attraverso una serie di esercizi spirituali di goffa vacuità. All'esterno, intanto, si muore per una misteriosa epidemia. Nello stesso anno di Todo Modo, Scola realizza forse il suo film più feroce e programmaticamente sgradevole, quel Brutti, sporchi e cattivi che sposa gli stessi toni grotteschi ed esasperati del film di Petri tratto da Sciascia, e racconta, appunto, quello che avviene fuori dallo Zafer. L'epidemia si chiama fame, la solidarietà è una pia illusione e la sopraffazione è la chiave per una miserabile sopravvivenza. Probabilmente, non il miglior Scola; di sicuro, tra i più necessari.
Andrea Pirruccio
1977: Una giornata particolare
Forse il capolavoro di Scola (insieme a La terrazza, dovessi dire); sicuramente quello in cui è più evidente la sua dote, altrove più nascosta, dell'organizzazione dello spazio, della messa in scena in senso stretto. E forse il film che più riprende la lezione di Antonio Pietrangeli, nella centralità del personaggio femminile e nel virtuosismo dei piani-sequenza. A suo modo, nel suo confronto con lo star system più classico, è un film sperimentale (6 minuti di cinegiornali all'inizio), che gioca col teatro, coi costumi, col set. Il quasi-bianco e nero inventato da Pasqualino De Santis vanterà numerosi tentativi di imitazione, ma raramente con questa intensità e radicalità: la grisaglia di quel giorno del 1938 faceva parte dei ricordi del regista, che però decanta l'autobiografismo togliendo ogni nostalgia, e abborda il mélo con il pudore e l'ironia dell'umorista del «Marc'Aurelio». La vera protagonista, certo, è Sofia Loren, nella sua migliore interpretazione di sempre, ma Mastroianni come "spalla" è sublime: e quando ballano la rumba, vince lui in sprezzatura.
Emiliano Morreale
1977: I nuovi mostri
A quattordici anni dall'epocale I mostri (1963) di Dino Risi, viene prodotto un seguito firmato coralmente oltreché dallo stesso Risi, da Mario Monicelli ed Ettore Scola. Una pellicola costretta ad affrontare una società diametralmente diversa rispetto a quella degli anni '60, pur mantenendo il solito tono greve, scanzonato e ficcante tipico della commedia all'italiana. Ciò che ne scaturisce è un film frammentario, ma comunque caratterizzato da episodi che lasciano il segno (su tutti L'elogio funebre e First Aid - Pronto soccorso) diretti con il piglio di una volta dal tridente inimitabile Scola, Monicelli e Risi. Uno degli ultimi colpi di coda del genere, tanto nostalgico quanto amaro.
Andrea Pesoli
1980: La terrazza
La terrazza inizia come Una giornata particolare: con un carrello che dall'esterno si introduce in una casa, che da un totale vuoto rompe la distanza. La macchina da presa si getta in una mischia che lentamente riempie la scena, fino al parossismo di una folla frantumata in una miriade di personaggi perfettamente intagliati. La terrazza è il manifesto del cinema di Scola: una coralità capace di fotografare il proprio tempo, di segnarlo crudelmente come una paresi giocando sull’accumulo di corpi, di gesti, di frasi a effetto da mandare subito a memoria. La fotografia di una surrealtà scandita da descrizioni appuntite, da un'aneddotica ipertrofica, da una lingua sia colta sia popolare. In questo film esemplare, i personaggi si svelano cesellando, come poche altre volte nel nostro cinema, una tragica farsa: il modo migliore per raccontare la disfatta di una classe intellettuale, ieri come oggi in perenne disfacimento.
Federico Pedroni
1981: Passione d'amore
La scelta "in costume" in Scola c'è solo quattro volte (a meno di non considerare, ormai la tentazione verrebbe, tali i primi decenni del secolo scorso co-presenti in Ballando, ballando, ne La famiglia e nello stesso Una giornata particolare...). Il soggetto letterario addirittura due volte e mezzo, nella trentina di regìe lungo cinquant'anni. L'incrociarsi delle due scelte minoritarie qui fa premio in pieno, portando probabilmente - eccettuata l'irraggiungibile Giornata - al suo film migliore: certo al più sorprendente.
Osando l'impopolarità di affrontare il romanzo estremo di Tarchetti, e il tema impossibile ma trascinante dell'innamoramento morboso, involontario, per una donna orrenda contrapposta a un'altra dalla bellezza assoluta (Fosca > < Clara: il vertice di morte-carne-diavolo nella letteratura scapigliata ormai decadente...) Scola trova la misura perfetta di una messinscena felicissima, degna del miglior Zurlini. Regalando a una strepitosa Valeria D'Obici riplasmata alla Murnau l'occasione della vita, dona a se stesso un capolavoro "piccolo" ma assoluto. Facendoci chiedere se abbia potuto davvero rivelarci tutto il suo potenziale: domanda stonata in questi giorni di celebrazioni un po' troppo quirinalizie su cui avrebbe per primo ironizzato.
Nuccio Lodato
1982: Il mondo nuovo
Non sono tanto l'ambientazione storica o lo sguardo distaccato sui grandi eventi, con la fine della monarchia francese, la Rivoluzione e Luigi XVI in fuga da Parigi, a rendere questo film magico. Sono la sua aria notturna e malinconica, l'oscurità illuminata dalle candele, i volti stanchi scontornati sul nero, e poi ovviamente quel futuro evocato dalla Lanterna magica, mentre il biancore cadaverico di Mastroianni-Casanova si fa emblema di un mondo che muore. Questa stessa idea di rappresentazione nella rappresentazione, questo effetto cornice che sa di fiaba e carta ingiallita, sarebbe poi tornato in Il viaggio di Capitan Fracassa, e in qualche modo – forse per suggestione solo mia, e non so quanto vera – anche nel Racconto dei racconti di Garrone.
Roberto Manassero
1983: Ballando ballando
E Scola si abbandona al sentimento un po' triste della memoria, disegnando in Ballando, ballando un cerchio imperfetto che racchiude 50 anni di Storia e cristallizza in attimi di sospensione fumosa la cronaca prosaica di umori, scaramucce, piccoli vizi e tic vanitosi, adesioni di corpi e contrasti, aperture e idiosincrasie che parlano anche di noi. 60 diversi motivi musicali. Non una parola, ma solo sguardi sopra le righe, espressioni super espresse, e ovviamente piedi danzanti, falcate suadenti, scatti all'unisono (con qualche episodica pestata di piede). Cinema puro, riportato alla sua ennesima potenza, con la macchina da presa che alterna particolari a piani totali riunendo in un affresco corale personaggi che si moltiplicano nei varchi temporali introdotti da un'orchestrina delle meraviglie. E la Storia si fa passo di danza, costruendo un carillon di magia dove tutto può accadere: Jean Gabin mette a posto le cose quando le scarpe si fanno troppo lustre e le pellicce ingombranti; Fred Astaire e Ginger Roberts sono talmente posticci da dover andare al bagno durante una performance, e ai nazisti, sporchi traditori, si può rifiutare un ballo passandola liscia.
Elisa Baldini
1987: La famiglia
Vedere e rivedere questo grande film di Scola è come scorrere le pagine fini dei Meridiani dei grandi autori. La famiglia somiglia a un grande romanzo, intenso come quelli di Mann e concreto come un Moravia: Scola confeziona un’epopea borghese, che traghetta tra generazioni attraverso gran parte del secolo breve, con i tratti sobri ed eleganti di una scrittura perfetta, scandita dal ritorno anaforico dei capitoli della vita. La vita di Carlo, di un piccolo italiano che, con il suo capo oleoso di bambino nel giorno del battesimo fino al tempo in cui si imbianca l’immortale sopracciglio di Gassman, ci mostra ciò che eravamo (e forse siamo un po’ rimasti).
Giada Cipollone
1989: Che ora è?
Le speranze della Resistenza si sono consumate nel boom economico e nelle smanie individuali di arricchimento e di affermazione. Le aspirazioni della politica di cambiare la realtà si sono stemperate dentro carriere variamente riuscite e sono divenute solo un rituale continuo ritrovarsi per parlarsi addosso di un po’ di tutto pur di non dirsi niente di autentico e impegnativo. La parabola del mondo nuovo è solo un eco lontano. L’addio a Berlinguer si accompagna con lo svelarsi del fallimento storico della borghesia italiana e delle sue famiglie. Il cinema in sala ha perso il suo splendore. Siamo nel 1989: è giunto anche per Scola (che ha spesso cercato di raccontare storie nella Storia in universi di cui è stato parte e/o testimone) il momento ineluttabile di chiedersi e di chiederci “Che ora è?” E’ l’interrogativo che con sguardi distanti, delusioni malcelate, attese confuse e diverse si pongono i due protagonisti, padre e figlio, inaspettatamente sullo stesso treno, interrogando in una sorta di gioco l’orologio del padre-nonno ferroviere. Sanno che forse non è la stessa per ambedue. Ma soprattutto che di certo è diversa da quella che quell’orologio aveva indicato, più di quarant’anni prima, al padre-nonno ferroviere.
Gianluigi Bozza
1989: Splendor
Il richiamo a Carlo Mazzacurati, con l'inquadratura della locandina di Notte Italiana all'inizio di Splendor, rende questo film di Ettore Scola ancora più nostalgico. Eppure nel 1989 Scola si sentiva in dovere di fare un omaggio al collega padovano, che solo due anni prima si rivelò al pubblico come osservatore e interprete della provincia di un nord-est italiano abitato da bizzarre creature, descritte con raro umorismo. Forse in quella citazione c'era il riconoscimento di una materia comune, fatta di commedia e narrazione sociale, di provincia, memoria e sorpresa verso il cambiamento. Splendor arrivava a poco tempo di distanza dal successo mondiale di Nuovo cinema Paradiso, ci voleva del coraggio a realizzare un altro film sul declino e sulla chiusura di una sala cinematografica, ma in Italia questo stava accadendo e sarebbe stato solo l'inizio di quello che negli anni si sarebbe trasformato in un vero e proprio crollo della cultura e dei suoi luoghi, per lasciare spazio a contenuti televisivi spazzando via qualità artistiche e valori. Ma la sfida Scola fu mettere insieme due attori apparentemente distanti come Marcello Mastroianni e Massimo Troisi, proprietario e proiezionista del cinema, con un divario generazionale e di caratteri che trovò seguito nel film Che ora è. Un padre e un figlio, ancora sotto la direzione di Ettore Scola.
Barbara Sorrentini
2013: Che strano chiamarsi Federico
Raccontare Federico Fellini è un'impresa probabilmente troppo complessa e ardua. Scola lo conosceva bene e proprio per questo aveva intuito l'impossibilità di realizzare un documentario che descrivesse il suo amico di Rimini. Che strano chiamarsi Federico è quindi, giustamente, un omaggio delicato e umanamente imperfetto, ma denso di malinconia e gratitudine. Gli intenti didattici sono accantonati a favore di una narrazione nostalgica che non rinuncia a strizzare l'occhio al grande pubblico rassicurandolo con gli elementi a lui più familiari (il profilo, la sciarpa, il cappello, il circo, ecc.) senza però rinunciare al sentimento più genuino e profondo che attraversa l'intero film. Un saluto a distanza, tra Ettore e Federico, ma anche una favola semplice e commovente raccontata con passione e sincerità come si trattasse di un nonno intento a intrattenere i suoi nipoti.
Simone Soranna