Si ridacchia spesso in questo incarognito non-film (nel senso che come viene pure detto tra i capitoli, è autolesionista, inconcludente, impotente). Un po' come il messaggio urlato con sberleffi e smorfie da Carmelo Bene in tutta la sua clamorosa carriera di geniale ed esacerbato mattatore e distruttore delle fondamenta borghesi dello spettacolo suo contemporaneo. Il suo aforisma “Il cinema è morto. Il cinema è la controfigura di se stesso” guida Franco Maresco in uno abbacinato sfottò che si intuisce disperato anche a dispetto del rigore delle immagini (quelle non si sporcano mai, a differenza delle parole e della narrazione: qui non c'è nulla in realtà che non sia progettato e sorvegliato anche nella sua imprevedibilità) e dell'autoironia che lo pervade.
Lo sceneggiatore e amico Umberto Cantone è sulle tracce del cineasta Franco Maresco. Il produttore Andrea Occhipinti è preoccupatissimo: ha dato il via libera a un dettagliato progetto cinematografico sul titano del teatro d'avanguardia e anti-moderno Carmelo Bene e da tempo non ha più alcuna notizia. Dove è finito il regista? Mentre un pio factotum lo scorazza volutamente senza costrutto per Palermo e Cinisi, Umberto ripercorre, almeno: prova, le tappe di un film che non vuol sapere di concludersi. Riprese (anche esilaranti) di una storia che parla anche del santo seicentesco Frate Giuseppe da Copertino si alternano ad altre che vorrebbero ricreare l'incontro tra Bene e il professor Gaetano Mascellino in un teatro di posa, ma nulla riesce a concludersi, “la maledizione di non riuscire a finire mai una scena sembra la regola”. Intanto, in aggiunta, per sommi e gustosissimi capi si ripercorre la carriera del talentuoso “comico” bastian contrario del cinema italiano, dalla sua collaborazione con Daniele Ciprì, agli esaltanti inizi di Cinico Tv che stupirono il pubblico di Rai Tre ai film, con lo scandalo del proibito in quanto sacrilego Totò che visse due volte, 1998, alla rottura del sodalizio, ai film successivi, magari premiati dalla critica (a Venezia La mafia non è più quella di una volta, 2019, fu segnalato col Premio Speciale della Giuria). Tra tanti sentieri senza uscita, ritorni e frantumazioni, il film acquista verso la fine quasi un percorso fluido da commedia, quando si scopre che l'esaurito Maresco, raggiunto da Umberto, si è rifugiato in un convento e si esprime con colpi alla porta, per poi scappare ancora una volta.
Il film dovrebbe essere una denuncia di impotenza creativa non tanto e non solo per motivi personali, ma più generali. Tra improperi e atroci sarcasmi (compresa una scena in cui viene maltrattato più che cinicamente anche un critico cinematografico che si presta all'occasione), il commento fuori campo lamenta e accusa: “oggi niente ha più senso. Un film di questi tempi non si nega a nessuno”. Aforismatico proprio come il Bene più brillante e virulento.
Come uno specchio mostruoso di noi spettatori, una umanità bizzarra ed empaticamente colta persino quando viene maltrattata (“voi dovete de-pensare!”) si sforza di recitare le parti previste dal copione o almeno di seguire le indicazioni di un regista volutamente implacabile. Invano. Da disillusa metafora della realtà artistica e sociale in cui sopravviviamo.