Drone. Un parola che ha ormai invaso la nostra quotidianità fatta sempre più drammaticamente di conflitti internazionali e notizie inquietanti che tutti i giorni sottolineano la sostanziale impossibilità di una convivenza pacifica, come se l’essere umano fosse per natura votato alla sopraffazione. Proprio di sopraffazione parla il nuovo film di Lucrecia Martel, presentato a Venezia fuori concorso. Per la prima volta è un documentario. E proprio con un drone inizia. Sembra incredibile se si pensa al cinema di Martel e all’uso spesso sconsideratamente banale, o peggio all’abuso, che di questa modalità sguardo si fa oggi nel cinema.
Qui un drone sorvola le terre della comunità Chuschagasta nel nord dell’Argentina e avanza, avvicinandosi, fino a cedere il passo alle riprese camera a mano che portano lo spettatore nell’aula di un tribunale dove ha luogo il processo per l’uccisione di Javier Chocobar avvenuta anni prima, nel 2009. Ci sono voluti nove anni infatti per aprire quel processo a carico dei tre uomini bianchi che, avanzando un diritto di proprietà su quelle stesse terre, erano finiti per entrare in conflitto con la popolazione locale fino a ucciderne il leader. Nove anni nei quali Martel segue il caso, incontra i Chuschagasta, ricostruisce insieme a loro il senso profondo di un’appartenenza atavica, un radicamento che risale all’epoca precoloniale, e accumulando testimonianze, fotografie, immagini denuncia esplicitamente la sopraffazione sistematica di un popolo e le conseguenze di questo processo secolare sulla contemporaneità.
“Che cos’è una comunità? Ci si registra per farne parte? Ci si associa?” chiedono a un certo punto in tribunale a un teste chiamato a deporre. Come se l’appartenenza fosse una questione di burocrazia; è proprio questo uno degli aspetti su cui più insiste il film di Martel che entra ed esce da quell’aula, torna sul luogo del delitto, scompone e mostra per frammenti il video dell’omicidio, filmato “quasi per sbaglio” dal telefono di uno degli assassini, reiterandone ferocia e contraddizioni. Ancora e ancora le immagini in bassa definizione si alternano a quelle del processo e a una sorta di straziante reenactment organizzato dalla polizia esattamente sulla terra dove è avvenuto il fatto con i protagonisti forzati a ricostruire il proprio punto di vista, la propria versione dei fatti mentre gli altri Chuschagasta guardano da lontano, dall'alto, osservano come spettatori inermi.
Intanto tra fotografie e racconti prende corpo la lunga lotta di Chocobaar e della sua gente per vedere riconosciuta, semplicemente, la loro identità e il loro diritto di essere a casa, sulla propria terra. Qualcosa che risuona quanto mai insostenibile se si pensa all’oggi e all’incapacità dell’essere umano di imparare dalla storia, di tenere saldo il lascito della memoria, di riconoscere. Un ultimo drone chiude il film, di nuovo essenziale, intelligente, puntuale come forse mai altrove nel cinema, lontano da una qualunque idea di artificio o di spettacolo. Così con lo sguardo che si allontana a ridimensionare e riposizionare, i colpevoli vengono lasciati alla loro condanna e i Chuschagasta alla "loro terra". Ma è un'illusione di giustizia, di risarcimento: dei 22 anni di condanna i colpevoli ne sconteranno solo 2 per poi tornare in libertà.