C’è stato un momento, tra la metà degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, in cui il nome di Francesco Nuti era famoso quasi quanto quello di Roberto Benigni. Toscano anche lui, di tre anni più giovane, Nuti si presentava al pubblico come una figura più comune e dunque riconoscibile, non un clown che aspirava alla beatificazione (cinematografica, rifacendosi a Chaplin, e culturale, risalendo addirittura a Francesco d’Assisi), ma un figlio di lavoratori cresciuto con la certezza del fallimento, la precisione dell’osservatore e la rabbia dell’uomo comune privato di qualcosa d’indefinibile.
Forse per questo la generazione di chi era adolescente nello stesso periodo del suo successo (nei dieci anni tra Madonna che silenzio c’è stasera, 1982, e Donne con le gonne, 1991, suo ultimo grande successo, secondo solo a Johnny Stecchino, prima del disastro spartiacque di Occhiopinocchio, 1994, film che sostanzialmente mise fine alla sua carriera) è stata quella che più l'ha compreso e amato, a differenza di chi era venuto immediatamente prima (basta vedere come questa rivista ha spesso trattato i suoi film) e di chi sarebbe venuto dopo, identificandosi con la figura un po’ arruffata e sempre svogliata di Nuti, adulto sognatore e buffone, in lotta contro la monotonia della vita e l'indifferenza degli altri.
Più passa il tempo più rileggere i film, soprattutto quelli popolari, in chiave sociologica o preveggente è facile (per cui qualsiasi comico o regista che negli anni ’80 parlava di ciò che succedeva oggi è trattato come uno che anticipava ciò che sarebbe successo), eppure è inevitabile scorgere in Francesco Nuti un autore – attore, regista, sceneggiatore, collaboratore di Maurizio Ponzi, Ugo Chiti, David Grieco, Giovanni Veronesi, quest’ultimo autore nel giorno della sua morte di un ricordo carico di dolore e affetto – a suo modo unico, moderno, parte del suo tempo ma fuori dal mondo, lontano non solo dalla comicità angelicata di Benigni, ma anche dall’inadeguatezza emotiva del Troisi di Pensavo fosse amore e invece era un calesse e dal vitalismo esasperato del Verdone meno comico e più sentimentale.
Il personaggio di Nuti, chissà quanto diverso dal suo creatore (forse per nulla diverso!), era tante cose, disincantato, innocente, arrogante, caparbio, altruista, aggressivo, misogino (terribilmente misogino), ma era soprattutto solo, disperatamente solo, capace di gesti di dolcezza e d’attenzione che avevano come unico scopo quello di offrire o ottenere riconoscenza, anche nei modi più aggressivi e ambigui. In quel suo volto ammutolito dallo sconforto c’era una dolcezza nascosta, così come un’aggressività sempre possibile; una richiesta d'amore che non sempre veniva accolta e che la sua stessa comicità metteva a nudo con i suoi tempi sfasati, le sue battute ritardate, i suoi effetti spaesanti (indimenticabile la gag dell’autobus in Tutta colpa del Paradiso), i suoi gesti reiterati che trasformavano i corpi in oggetti e gli oggetti in presenze estranee alla realtà (come nella scena dei pazienti dello psicanalista in Caruso Pascoschi (di padre polacco)).
Prima dell’uscita di Willy Signori e vengo da lontano Nuti si presentò in tv con un promo in cui reggeva in braccio un bambino piccolissimo dicendo con quella sua aria impassibile e quella sua inflessione strascicata che quello che reggeva era un robot di ultimissima generazione, sofisticato a tal punto da sembrare in tutto e per tutto un essere umano. Nella distanza tra il non-senso della scena e la fissità muta dei due corpi (uno naturalmente inconsapevole, l’altro volutamente insensibile) c’era l’essenza della sua comicità modernista, per quanto spesso basilare e applicata con una messinscena elementare e poi via via sempre più inutilmente formalista.
Il cinema di Nuti si fondava (semplicemente?) su una sorta di sfasamento, su tempi fuori sincrono e su figure fuori luogo (a cominciare da presenze immancabili come il non-attore Novello Novelli o spaventose come la Laura Betti di Tutta colpa del Paradiso), come se il set fosse sempre pronto a essere invaso dall’assurdo della vita, senza dover per forza tirare in ballo Renoir ma riconoscendo a questo attore e regista sprezzante e generoso una capacità unica – poi persa con il tempo, forse per un’ambizione superiore alle capacità – di rappresentare un generale sentimento di scollamento dalla vita. Una disperata, un po' compiaciuta, richiesta d’aiuto.