Ladri di biciclette, Sciuscià, Miracolo a Milano, La ciociara, Ieri, oggi, domani... Inutile sciorinare i titoli citati come il solo biglietto da visita di un regista quale Vittorio De Sica. Anche più riduttivo, ancorché inevitabile, accostare De Sica a Rossellini per l'enorme contributo dato al neorealismo, peraltro fermamente contestato dallo stesso, o il fatto che il suo nome contenda a Fellini il maggior numero di Oscar per il miglior film straniero ottenuti dal cinema italiano.
Altrettanto facile, nel quarantesimo anniversario della morte, figurerebbe il parallelo del cineasta di Sora con un altro maestro della cui scomparsa, non molti giorni fa, si è celebrato il trentennale, Truffaut. E poca distanza, sempre procedendo per ricorrenze, avrebbe separato la morte di De Sica da quella di Pietro Germi. Ma nel caso specifico, anche chi non necessariamente è un divoratore di cinema si abbandonerebbe al confronto tra il ciociaro e il francese: entrambi, pur secondo modalità di regia diverse ma non troppo lontane, ineguagliabili esperti nella direzione cinematografica dei bambini e altrettanto sensibili ai temi dell'infanzia.
Come ogni figura elevata a mito, in particolare se si tratta di un nome importante, anche la storia di De Sica ha i suoi aneddoti. Apologhi e dicerie, voci e leggende che continuano ancora oggi, non facendo altro che coltivarne la duplice grandezza, di cineasta e di uomo. Una grandezza che si avverte perfino nelle testimonianze più intime del figlio Christian – onestamente, le sole eredità realmente visibili – e nell'arte musicale dell'altro figlio, Manuel. Eppure ugualmente risulta difficile, quasi inestricabile, scindere i due aspetti di un'identica personalità, tanto complementare appariva (e continua ad apparire) l'altezzosa boriosità di superficie di un conte Max mescolata alla semplicità dell'individuo comune disposto a sorridere sotto i baffi, dietro una divisa da carabiniere o in toga da pretore, come del poeta nascosto tra le righe. Dell'artista.
Un artista austero, capace della più luciferina crudeltà sul set (lo testimonia il suo rapporto con la povera Maria Pia Casilio durante la lavorazione di Umberto D.). Nondimeno, una persona finissima e garbata, dotata di quella classe che l'odierno osservatore non riuscirebbe probabilmente a distinguere nemmeno su una vecchia stampa. Una persona capace di giocare con la propria stessa freddezza traslandola in burletta, e questo non solo nelle commedie al fianco di Sordi, della Loren o della Lollobrigida, ma anche in alcune ospitate televisive, in compagnia di Corrado o della Mondaini, in cui giocava al tombeur de femmes con Lola Falana. Una persona ironica e autoironica, che – memore del teatro serio e della rivista, ancor prima del cinema di Camerini – intuiva la forza comica, popolare e dirompente, di mostri sacri quali Totò, Renato Rascel, Franchi e Ingrassia, Fernandel, Sordi medesimo, permettendo loro di comparire in alcuni suoi lavori. E di prendersi malinconicamente in giro, apparendo per l'ultima volta, poco prima della morte, in quell'emblematico epitaffio dedicatogli da Ettore Scola, C'eravamo tanto amati.
Se della lezione di De Sica, fortificata dalla collaborazione con Zavattini e debitrice di Chaplin, la cinematografia successiva è riconoscente a propria volta (si pensi a Pasolini), basterebbe il quarto segmento dell'affresco dedicato alla Napoli cui era legato per comprendere come i due antitetici aspetti del personaggio, e del sense of humour che ne contraddistingue la personalità nascosta, mirabilmente si fondono con lo sguardo, maturo e denudante, del piccolo Gennarino-Piero Bilancione, col quale il tronfio conte Prospero si riduce a giocare a scopa. E a perdere, come a perdere sul serio al gioco capitava purtroppo a lui stesso in realtà...
Un segmento, preso in esame anche da Scorsese ne Il mio viaggio in Italia, che inizia nel segno del folklore e del “neorealismo rosa”, dove a parlare sono in prevalenza gesti e silenzi, e le pochissime battute appartengono al conte, la cui retorica teatraleggiante ne rivela la patetica, ilare mestizia. La restituzione della semplicità, e dunque l'occhio sensibile del De Sica regista e poeta, sono nello sguardo triste e dimesso di Gennarino, desideroso solo di giocare con gli altri bimbi in cortile, cui non resta che il silenzio, un gattino in grembo, in risposta alle vili accuse del nobile che lo taccia di pura fortuna. La genuinità dell'uomo sta dietro l'eccessiva, fatua mascherata, come riprova il funeralino di un altro episodio del film, o il volto dimesso di Umberto D. protetto dai finestrini di un tram mentre fuori piove. In questo, forse, risiede la saggezza, puntellata di rancida ironia, del piccolo Gennarino: la carta sa da chi deve andare.