Quando nel 1992 Otar Ioseliani, il regista georgiano morto lo scorso 17 dicembre a 89 anni (era nato a Tiblisi nel 1934), presentò a Venezia Caccia alle farfalle, poi destinato a diventare il suo film più famoso, l’Urss si era dissolta da poco più di un anno, la Georgia era una repubblica indipendente dall’aprile del ’91 e lui viveva a Parigi da un decennio, dopo aver lasciato il suo paese in seguito ai guai con la censura patiti da Pastorale, terminato nel 1975, distribuito in pochissime città nell’82 e nello stesso anno presentato con successo a Berlino. Ioseliani era insomma un esule, un cittadino del mondo senza un paese a cui tornare anche dopo la fine della dittatura, e il castello nella campagna francese al centro del film, di proprietà di un’anziana signora che moriva lasciando l’edificio in eredità a chi non sapeva che farsene (i familiari russi e già arricchiti lo svendevano a speculatori giapponesi…), diventava la metafora semplice e immediata del suo mondo ristretto eppure universale, fuori dalla storia e dentro un tempo frammentato e frammentario, senza distinzione fra passato e presente, presenza e memoria.
Per sé Ioseliani ritagliava la parte del fantasma con la sigaretta sempre in bocca, presenza invisibile che solo i più anziani ogni tanto potevano vedere (o toccare, attraverso la sigaretta) e nella quale non era difficile scorgervi un’altra immagine semplice e definitiva: quella del cinema, che per il regista georgiano è sempre stato pure lui una presenza quieta, un poco distante, disposta a osservare tutto, con curiosità e amore, per mettere a nudo ogni piega del mondo.
Nel 1970, quando la stagione del disgelo era stata archiviata dalla normalizzazione di Brežnev, Ioseliani aveva diretto un film, C’era una volta un merlo canterino, in cui un personaggio allora atipico, un musicista nullafacente e ritardatario, diventava la vera maschera del suo cinema: un uomo solo, svagato, buffo, sempre in movimento eppure incapace di raggiungere le cose. Una specie di Tati perso in un mosaico di storie tutte diverse e tutte uguali, un brigante, come avrebbe teorizzato il regista anni dopo (in Briganti, 1996, titolo originale: Brigands, chapitre VII), decidendo di numerare i suoi film come parti di un solo grande discorso: «a quanto pare, tutta la mia vita ho continuato a raccontare la storia di gente che ruba e cerca di vivere sulle spalle degli altri», disse in un’intervista su «Cineforum» (n. 362, marzo 1997).
Per Ioseliani, la storia stessa non è stata altro che la ripetizione di una vicenda di violenze e distrazioni («Non credo che si possa parlare di ciclo, quanto piuttosto di ponti tra diverse epoche e generazioni», disse ancora in quell’intervista), laddove invece le storie dei suoi film, e in particolare del suo capolavoro I favoriti della luna (1985), il primo lavoro girato in Francia dopo la partenza dalla Georgia, erano episodiche, discontinue, incomplete, con un esile filo che legava epoche e stagioni e tanti personaggi ad annodarne il percorso, a prendersi il loro pezzo di scena, il loro tratto di filo. Quella serie di storie legate da un paio di oggetti (un servizio di piatti e un ritratto di donna che passano di mano in mano tra un secolo e l’altro) abbracciava l’epica postmoderna del frammento (per certi versi anticipava di anni Underground di Delillo!), ma la prospettiva non era formalista, o concettuale, bensì tragicamente e comicamente umanista. Nuova e insieme antica. Questo in fondo era Ioseliani: un uomo del suo tempo volutamente inattuale e in disparte.
Ioseliani costruiva le sue storie a partire da proverbi (Pastorale), filastrocche (I favoriti della luna), canzoni popolari (Addio terraferma), forme di narrazione popolari e fisse, e nel solco di queste tradizioni osservava con spirito ironico e distaccato, né moralista, né amorale, quello che a proposito di Caccia alle farfalle chiamava «l’arrivo dei pragmatismi» e prima ancora, in Un incendio visto da lontano (1989), girato in Senegal, «perdita di cultura» e in I favoriti della luna ossessione per il denaro e il furto. In realtà si trattava ogni volta della stessa cosa, come già in La caduta delle foglie, girato in Urss nel ’66: e cioè dello svelamento di un’anima concreta del mondo a cui solo le anime sbadate potevano opporsi, prima con la fantasia, la musica, la poesia e poi, via via che Ioseliani diventava sempre più disilluso, con il furto («I favori della luna si apriva con la citazione da Shakespeare: «Perché noi siamo chiamati ladri? / Noi che siamo le guardie del corpo di Diana nelle foreste; / i cavalieri delle tenebre; i favoriti della luna»), la fuga, l’alcol, il fumo, i rituali antichi del gioco e della caccia.
A un certo punto, quando ormai era anziano e stanco, e il cinema di cui era stato uno dei massimi esponenti (il cinema d’autore europeo degli anni ’60 e ’70, che nei decenni successivi, grazie al suo stile semplice e laconico, era riuscito a preservare dal rischio del poeticismo), Ioseliani faceva film solo per ribadire che non era più tempo per i suoi film, e così per i suoi personaggi, le sue storie paradossali, i suoi elogi della marginalità, dell’assurdo, del paradosso, come un allievo di Buñuel ma più nostalgico e dolce, in fondo attaccato alla vita e sempre speranzoso che qualcosa potesse dare senso all’assurdo del mondo.
Adieu, plancher des vaches, addio, piattaforme delle vacche, diceva partendo con sollievo e poi voltandosi a osservare ciò che aveva perduto.