Il dettaglio più citato negli articoli e nelle agenzie italiane dedicate alla morte di Monte Hellman, scomparso il 21 aprile a 91 anni, è che ha prodotto Le iene di Quentin Tarantino (che poi ricambiò, consegnandogli il Leone d'oro alla carriera alla Mostra di Venezia del 2010, dov'era presidente della giuria). E poi che ha diretto Jack Nicholson in tre film, e Fabio Testi in due, e ha girato parte del suo ultimo film sul Garda. Non pervenuto, Warren Oates (quattro film con Hellman, che lo considerava il suo alter ego).
La memoria cinematografica italiana, che non è mai stata sveglia e raffinata come quella francese né metodica e informata come quella anglosassone, è sempre più corta e annacquata. Non che Monte Hellman non se la sia cercata: autore di dodici lungometraggi tra il 1969 e il 1990, scomparso poi dagli schermi per ventuno anni e ritornato alla regia, appunto nel 2010, con Road To Nowhere (il film in parte girato in Italia, ma che in Italia non fu mai distribuito), e poi scomparso di nuovo, è ovvio che non stia nel pantheon dei registi classici per i quali si tengono sottomano dotti coccodrilli. Eppure a tutti è arrivata la voce che si tratti di un autore di culto; altra faccenda è spiegare, magari in cinque righe, i motivi di questo "culto". Che non nasce ovviamente dalla produzione esecutiva di Le iene.
In realtà, avrebbe voluto dirigere lui Le iene, dalla sceneggiatura di Tarantino che gli aveva fatto leggere Steve Gaydos, lo scrittore e produttore con cui Hellman collaborava da anni. E viene da chiedersi come sarebbe stato il suo Resevoir Dogs: certo meno scintillante e concitato e probabilmente meno bello di quello di Tarantino, toni più bassi, meno musica, forse meno one-man-show individuali. Più astratto, più laconico, più "sotto vuoto" di quanto non sia già il compresso "garage movie" dell'allora giovane esordiente. Eppure, a pensarci bene, si capisce che cosa della sceneggiatura attraesse l'intellettuale Hellman, a partire dai sei protagonisti senza nome, contrassegnati solo da un colore (com'erano contrassegnati solo dalle loro funzioni o dall'auto i quattro protagonisti di Strada a doppia corsa, Two Lane Blacktop, 1971: "the Driver", "the Mechanic", "the Girl" e GTO), per arrivare all'assoluta insignificanza della loro storia, uomini in un "paesaggio" (anche un magazzino può essere un paesaggio), che compiono una dopo l'altra le azioni che sono meccanicamente indotti a compiere (chiacchierare, rapinare, fuggire, sparare, chiacchierare ancora, morire, come i non-eroi hellmaniani cavalcano, sparano, guidano, scommettono, chiacchierano - poco). Al mondo non importa nulla; a loro ancora di meno; agli spettatori poco, causa una quasi totale mancanza di immedesimazione. Perché i personaggi di Monte Hellman non erano anti-eroi, come Billy e Capitan America o Bonnie e Clyde; e non percorrevano le strade dell'anti-mito, come Kowalski o i rinnegati del Mucchio: i suoi personaggi erano figure in un paesaggio (come accadeva, più o meno contemporaneamente, ai due fuggiaschi di un bel film di Losey, Caccia sadica, intitolato in originale, appunto, Figures in a Landscape) e i suoi film erano riflessioni filosofiche sull'esistenza e il nulla, catapultate dentro i confini del cinema di genere.
Definiti dallo studioso Charles Tatum "esistenzialisti", i film di Hellman sono anche stati indicati da Franco La Polla come alcuni tra i pochi autentici esemplari americani del tanto conclamato (e spesso abusato) "iperrealismo". Ma La Polla, che nel 1990 fece una bella intervista al regista (pubblicata su Cineforum 297), in occasione della prima retrospettiva che gli fu dedicata in Italia, da Bergamo Film Meeting, aggiunge altri assi al suo taciturno, quasi imperscrutabile cinema, implicazioni beckettiane, kafkiane, sartriane, camusiane:
«Se osserviamo le sue cose più riuscite, ne uscirà un inconfondibile modello di viaggio, di cammino, di percorso, appunto, la cui portata metaforica è fuor di dubbio, ma che soprattutto stabilisce, per così dire, il tono dell'opera. Un tono - e questo è un punto importante - squisitamente mitologico, nel senso di iterativo, così come iterativa è l'immagine mitologica, che tanto affascina Hellman, del Sisifo camusiano. Non l'azione, dunque, ma il mito dell'azione: non ciò che avviene, ma la rappresentatività stessa della nudità del suo farsi. Il Percorso, allora, perde la sua connotazione di curiosità per diventare destino. I personaggi non "vanno" né "viaggiano"; essi, semplicemente, sono. Cioè, si identificano nel proprio destino».
Troppa roba per un regista che, in fondo, ha fatto horror, due film di guerra e due western girati back-to-back (contemporaneamente) per la Corman Factory, un road movie, un paio di film di avventure e un thriller-noir che (all'estero) è stato paragonato a film di Bergman e Hitchcock? No, è solo riconoscere a questo intellettuale educato e gentile, appassionato di Beckett, di Camus, di pittura e di musica, innamorato del cinema ma, ancora di più, della propria libertà espressiva, quello che gli spetta: con La sparatoria (The Shooting, 1966), Le colline blu (Ride in the Whirlwind, 1966), Cockfighter (1974) e, soprattutto Strada a doppia corsia, Hellman si è collocato tra gli autori che precorrono i tempi e certamente nel pantheon degli indipendenti.
Come scrive Steve Gaydos nel bel obituary pubblicato su «Variety»: «A Monte Hellman, l'uomo che ha perso la sua battaglia con Hollywood ma ha battuto il diavolo al suo stesso gioco, con il suo miscuglio preferito: tequila Patron, succo di lime fresco e Cointreau».