Rispetto ad altri cineasti britannici della sua generazione, come Stephen Frears, Mike Leigh, Neil Jordan o Ken Loach, Terence Davies è stato sicuramente il meno prolifico. Probabilmente anche il meno noto al pubblico internazionale, pur senza aver sperimentato l’isolamento quasi ostracistico di cui sono stati vittima due giganti suoi pari come Peter Watkins e Bill Douglas. Le ragioni non sono impossibili da individuare (un critico americano una volta malignò:«i film di Terence Davies fanno assomigliare Ingmar Bergman a Jerry Lewis»). Il corpus delle sue opere assomiglia infatti a una sorta di fantasia sacra, dove, soprattutto agli inizi, la consequenzialità viene annullata o rigettata come a celebrare un incontro impossibile tra Proust e Brecht. Lontano da ogni moda, scuola, tendenza o mercato.
Davies è nato nel 1945, ultimo di dieci figli. La sua era una delle tante famiglie proletarie di Liverpool, città dove è cresciuto tra strade e negozi, scuole e chiese, architetture neoclassiche e vittoriane. Da una parte circondato dall’affetto di famigliari e amici, dall’altra angariato dalla tirannica violenza del padre, morto per un cancro allo stomaco quando il futuro regista di Voci lontane… sempre presenti (1988) aveva solo sette anni. Ai tempi, Liverpool, località portuale al centro di molteplici rotte commerciali, era uno dei luoghi più cosmopoliti d’Europa, motivo che lo ha portato a sviluppare un profondo senso di unione comunitaria. Per altro verso, l’appartenenza a una famiglia di cattolici irlandesi lo ha invece proiettato in un universo timorato, impregnato di una severa etica dell’autonegazione che tuttavia non gli ha impedito di accettare quasi immediatamente la sua omosessualità. E ciò malgrado il maschilismo soffocante e paternalista si allargasse anche agli ambienti scolastici.
Questa pur frettolosa rendicontazione biografica è fondamentale nel caso di Davies, perché le esperienze vissute in età prepuberale e adolescenziale riverbereranno nella sua esigua filmografia («Faccio film per venire a patti con la mia storia famigliare», ha dichiarato). Si vedano soprattutto i primi lavori, i cui personaggi vivono spesso all’interno della cosiddetta «linea d’ombra» conradiana, ovvero immersi nell’incosciente solitudine della giovinezza e galleggiando in una bolla atemporale sospesa tra gaiezza e illusioni, desiderio e scoramento, senso di appartenenza e volontà di sradicamento. Gli stessi sentimenti da lui provati prima e durante il battesimo della vocazione artistica, ossequiata prima recitando in alcune compagnie amatoriali di Liverpool e poi iscrivendosi, all’inizio degli anni Settanta, alla Coventry School of Drama,
È qui che, con il sostegno finanziario del British Film Institute, realizza il suo primo cortometraggio, Children (1976), a cui faranno seguito Madonna and Child (1980) e Death and Transfiguration (1983), poi riuniti sotto un unico ombrello nella cosiddetta Terence Davies Trilogy (1983). Opera trifronte, girata in un bianconero poverissimo che paradossalmente ne esalta la natura di ritaglio impressionista, è anche quella dove per la prima volta Davies rievoca la sua storia e fa i conti con la sua identità sessuale (che poi chiuderà definitivamente con il suo unico romanzo Hallelujah Now). La vera forza della trilogia (che andrebbe confrontata con la celebre Trilogy del già citato Bill Douglas), scandita attraverso tre fasi nella vita dell’alter ego Robert, è però l’aver gettato i semi per quell’ideale autobiografia per immagini che germoglieranno nei successivi Voci lontane… sempre presenti e Il lungo giorno finisce (1992).
Autobiografia, certo, ma contemporaneamente fantastica e aneddotica, come a rappresentare un sentimento di simultanea adesione e distanziamento dal mondo evocato, restituito come un flusso lirico-cromatico di sogni e memorie, quotidianità minuta o infiorettature immaginifiche. Torna in mente Saul Bellow, quando diceva che «tutti hanno bisogno di ricordi. Tengono il lupo dell’insignificanza fuori dalla porta». Di certo, non stupirà sapere che tra i suoi modelli cinematografici ci sono due documentaristi come Humphrey Jennings e John Grierson (il secondo, in verità, più prolifico come produttore e teorico), capaci sempre di partire dal dato reale per poi alterarlo, mostrandone soprattutto – come ha scritto Rancière a proposito di Listen to Britain – i «momenti di sospensione». Una specie di prolungata stasi, vissuta anche da molti dei suoi personaggi, dove il tempo sembra essersi congelato per poi irrompere d’improvviso con tutto il peso del suo passaggio. A tal proposito, non è difficile trovare un remoto grado di parentela con alcuni grandi della tradizione letteraria britannica novecentesca come James Joyce o l’americano naturalizzato T.S. Eliot (i Quattro quadretti hanno avuto su Davies un’influenza fortissima e sempre riconosciuta).
Probabilmente, però, il nome che più di tutti gli si dovrebbe accostare è quello di Virginia Woolf. La prova del nove sarebbe forse leggere Gita al faro in parallelo con la visione di Voci lontane… sempre presenti e Il lungo giorno finisce (che rimangono i suoi due capolavori, i film per cui più di tutti sarà celebrato e ricordato). Certo, la prospettiva in cui si muove Davies è indubbiamente antipsicologica, ma uguale è la generosità con cui cerca di rappresentare l’instabilità dell’animo attraverso il filtro di un’interiorità che rilegge gli eventi alle luce di sensazioni immateriali e associazioni mentali improvvise.
Come detto, Voci lontane… sempre presenti e Il lungo giorno finisce sono riflessi autobiografici, ma ambientati nel tempo mitico della coscienza. Simboleggiata dall’inquadratura ricorrente della scala rettilinea che collega i due piani dell’abitazione della famiglia al centro delle vicende (la si ritrova anche in Children e rappresenta il passaggio verso la liberazione dell’inconscio), questa coscienza instabile può essere frammentata in uno sciame di punti di vista come in Voci lontane… sempre presenti oppure aderire alla voce di un solo protagonista come ne Il lungo giorno finisce.
Entrambi i film raccontano in fondo la prostrazione postbellica della working class di Liverpool. Nel caso del secondo, però, trasfigurata dai vagheggiamenti di un adolescente, la cui fervida immaginazione produce rime insospettabili tra realtà e fantasia. Nel primo invece, mostrando «una realtà proletaria vista a distanza ravvicinata, nei suoi riti, pasti e riunioni, feste e funerali, lavori e matrimoni, e nei suoi spazi, casa e pub in primo luogo, e poi chiesa e ospedale – e vista nella sua chiusura (e come tale era sentita e vissuta), ma anche nella sua fiera autonomia culturale di cui è parte una visione seria, tragica (e assai nordica) della vita. Che s’incarna nella figura ossessiva del padre, violento per infelicità. La famiglia non è quella contadina e religiosa di Olmi che dà calore, è invece il luogo di tensioni autodistruttive, “l’origine delle cicatrici”, dice Davies, ma comunque è su di essa che si fonda il vissuto popolare» (Gianni Volpi).
Ci sono già formalizzati molti elementi che torneranno anche nelle opere successive. Le canzoni, anzitutto, secondo un’idea di film-partitura che si snoda attraverso il tono emotivo della musica e del canto; il cinema come luogo dell’evasione e del desiderio (non è un caso che l’immagine-simbolo del desiderio, in Davies, sia l’inquadratura di un personaggio che, trasognato, guarda al di là di un vetro o di una finestra che assumono proprio la stessa funzione dello schermo cinematografico); la pioggia che segnala il trapasso da un tempo oggettivo a uno più interiorizzato e soggettivo; il ritualismo punitivo della religione e il microcosmo, di volta in volta autoritario o accogliente, della famiglia. C’è soprattutto, però, una fiducia struggente nel cinema visto come strumento che non imita la vita ma permette in qualche misura di di riviverla («If I Had My Life to Live Over Again», recita una canzone di Il lungo giorno finisce). Nella filmografia di Terence Davies, il movimento puramente cinematografico (spesso dolly o carrellate rettilinee che seguono traiettorie impossibili da replicare per l’occhio umano) corrisponde di fatto al moto dell’anima, alle sue intermittenze e ai suoi sobbalzi.
Suoni, immagini, memorie, eventi, visioni, passioni, sentimenti, sacro, profano, biografia reale e immaginaria: tutto si tiene e si fonde in una strana, inimitabile forma di osmosi barocca. E quando, adattando il romanzo La Bibbia al neon di John Kennedy Toole in Serenata alla luna (inaugurando una lunga stagione di trasposizioni letterarie), questo macrocosmo quasi spettrale, per giunta impiantato tra i solchi del gotico rurale americano, rasenta i capricci della maniera, ecco che il suo cinema muta pelle. Prima con il sontuoso adattamento di La casa della gioia di Edith Wharton, che certamente è imparagonabile a L’età dell’innocenza di Scorsese ma mostra comunque la cupa tetraggine che si nasconde dietro gli sfarzi di una società aristocratica retta da leggi e convenzioni neotribali. Poi, dopo l’intermezzo di Of Time and the City (documentario commissionato dalla Liverpool Cultural Company dove ancora una volta la realtà viene rielaborata in forma soggettiva), aprendo la stagione dei suoi ultimi grandi film.
Ecco quindi Il profondo mare azzurro (2011), che in parte tradisce l’omonima pièce di Terence Rattigan; Sunset Song (2015), dall’omonimo romanzo di Lewis Grassic Gibbon, dove all’interno di una cornice un po’ troppo inamidata sono contenute alcune tra le pagine più belle del suo cinema (a partite dal ricorso geniale all’ellissi); A Quiet Passion (2016), sulla vita di Emily Dickinson (ma anche, in filigrana su un’America conservatrice e puritana che non sopravvive indenne al trauma della Guerra civile); infine Benediction (2021), specie di film-testamento sulle vicende del poeta omosessuale Siegrified Sassoon, ancora non distribuito da noi.
Sono tutti film al femminile (tranne nell’ultimo caso), in cui preponderante è il ruolo della parola, con la sua potenza creativa e astratta e la sua capacità di traghettare gli uomini oltre i limiti dell’esperienza individuale. Opere dove le nubi impressioniste dei primi lavori trascolorano in una specie di espressionismo tardoromantico (eccezion fatta per Sunset Song), imperniato sulla dinamica luce e ombra, dove la bellezza malinconica della natura (Sunset Song, Benediction) si contrappone alla claustrofobia asfissiante degli interni (Il profondo mare azzurro, A Quiet Passion). E dove, contrariamente agli esordi, non è più possibile alcuna fuga in un mondo onirico: sta all’inamovibile tenacia di uomini e donne non riconciliati cercare di comprendere la realtà in cui vivono e trovare il modo per sfidarla, prima ancora che cambiarla. Stabilendo così un parallelismo, forse fin troppo facile, con quanto Davis si è sforzato di raggiungere nel corso di tutta una carriera e di tutta una vita:«Il mio punto di vista proviene dall'istinto e dal cuore. Cerco di essere il più fedele possibile alla memoria. Ricordo l'intensità di quei momenti, che ancora oggi risuonano in me. Perciò non ho alcuna distanza estetica dal materiale dei miei film».