Può cavalcare due onde favorevoli il libro di Marco Bertozzi L'Italia di Fellini – Immagini, paesaggi, forme di vita (Marsilio, 200 pagine, € 20,00). La prima è che viene edito l'anno dopo del centenario della nascita del cineasta (20 gennaio 1920-31 ottobre 1993), sulla scia delle tante manifestazioni in ricordo, quindi ancora “caldo”. La seconda è che una delle tendenze più fortunate della saggistica cinematografica di oggi (dall'editoria alla produzione culturale più allargata) è quella di rileggere e raccontare la storia nazionale attraverso i film.
Peraltro, in questo caso, l'operazione è più complessa e ambiziosa: analizzare un regista attraverso le direttrici della sua poetica, quasi fosse (plausibilmente) una sorta di antropologia geografica del carattere dell'italiano, attraverso particolarissime (felliniane) chiavi di interpretazione. Questo libro quindi non è (tanto) una biografia di uno dei più grandi autori che il cinema abbia regalato al mondo, per quanto, inevitabilmente e anzi programmaticamente, storia personale e rilettura estetica si mescolino e non è neanche una filmografia ragionata e organizzata cronologicamente (per quanto tutta la sua opera venga ben citata, inserita e affrontata).
Marco Bertozzi, tra i suoi vari interessi cinematografici (filmaker, studioso del documentario, docente a Venezia), ha concentrato il suo lavoro intellettuale da anni proprio sul cineasta romagnolo, con la progettazione del Museo Internazionale Federico Fellini, nonché la cura di una gigantesca bibliografia (in tre volumi) a lui dedicata e battezzata “Bibliofellini”. Uno studio certosino che qui ha prodotto uno dei più notevoli, per apertura, passione e ricchezza di citazioni e “pezze d'appoggio”, libri di critica e interpretazione del regista.
Più specificatamente: quali sono i temi qualificanti su cui accorpare e decodificare una filmografia di 24 titoli (film, mediometraggi, opere tv), più sceneggiature varie, interviste, libri (a volte disegnati, come lo splendido Libro dei sogni), spot pubblicitari?
Per Bertozzi, Fellini resta costituzionalmente un architetto della fantasia, un antropologo alla ricerca degli estremi dei “tipi” per meglio comprendere i fattori unificanti di una comunità estesa, uno psiconauta che nel mondo del magico e dell'irrazionale (persino nel demoniaco), ha trovato un sentire comune nazionale, a volte frainteso dai suoi contemporanei e non intendiamo solo la critica o la “magna pars” della cultura di stampo illuminista.
Dalla Rimini natale e placentare reinventata ne I vitelloni o Amarcord (e altrove), alla Roma altrettanto “verificata” nei teatri di posa; dallo spettacolo di caratteri “estremi”, bizzarri, ma fondamentalmente riconoscibili in un comune patrimonio “genetico” e di costume, al racconto che da narrativo si evolve a partire dai '60 in una ricostruzione personale e fantastica, di realismo magico e surreale, sino a fluire in un affresco visionario, quasi seguendo la logica dei sogni o in forma di appunti, per caratterizzazioni e memorie filtrate, più che dalla stretta autenticità, dalla plausibilità.
Fellini ha riscritto l'arte del cinema partendo dal suo immaginario ricchissimo e nebbioso, capace di assorbire ogni segnale della cultura, alta o di massa, sottilmente ambiguo a dispetto persino della volgarità grassa in cui trovava a volte alimento, costruendo così una iconografia mitologica unica e amata universalmente.
Un viaggio globale e “sotterraneo” dal dopoguerra alla nostalgia della perdita dell'identità, cui il libro di Marco Bertozzi offre un formidabile passe partout, colto ed empatico.