Iniziativa lodevole la pubblicazione di questo volume monografico dedicato a Robert Mulligan, a cura di Mario Molinari e Fabio Zanello, per le Edizioni Falsopiano, che ha il merito di esortare a una considerazione più attenta e – immaginiamo per molti – meno superficiale del lavoro di questo regista, noto principalmente per Il buio oltre la siepe; lavoro tutt'altro che circoscrivibile a questo solo titolo, per quanto importante. In una tale prospettiva risulta perfettamente adeguata la struttura, a prima vista molto tradizionale, della raccolta di contributi, firmati da una quindicina di critici, che passano in rassegna singolarmente i titoli di una filmografia tanto interessante quanto non sempre premiata dagli incassi: un mancato riconoscimento economico che indubbiamente ha avuto il suo peso nel convincere Mulligan a ritirarsi dal set nel 1991, a un'età (66 anni) tutt'altro che longeva.
Carriera iniziata nel quadro della fiction televisiva degli anni '50, il “teatro catodico”, come lo definisce Anton Giulio Mancino nel suo intervento, in cui Mulligan elabora mestiere e temi personali “di concerto con un altro cineasta a lui molto vicino come Arthur Penn”, parallelamente alle esperienze di Robert Altman e Sydney Pollack. Come si vede, tutti nomi che a partire dalla seconda metà degli anni '60, un po' dentro e un po' fuori dalla cornice della cosiddetta New Hollywood, hanno lasciato una traccia decisamente più marcata e continuativa del Nostro. L'esordio propriamente cinematografico è nel 1957 con il film, Prigioniero della paura – protagonista un Anthony Perkins pre-Psycho, già in grado di “bucare lo schermo” – in cui emergono interessi e modi della rappresentazione che saranno poi ripresi, approfonditi, articolati, perfezionati nel corso degli anni a venire.
L'approccio di Mulligan al suo confrontarsi con generi diversi (dramma famigliare, commedia, western, noir, horror) è caratterizzato, come ben emerge nel volume dalle analisi condotte sui singoli film, da un tono mai enfatico, declamatorio. L'intimismo di fondo con cui viene rappresentato l'intreccio di motivi, che ruotano in fondo sempre attorno al tema della famiglia (relazioni generazionali, parentali e sentimentali; condizione femminile; problematiche dell'adolescenza e dell'ingresso nel mondo degli adulti; disillusioni e traumi originati da fallimenti esistenziali, che si traducono a loro volta in nuove forme di indifferenza o sopraffazione, in una catena difficile – ma non impossibile – da spezzare), non è riduttivo né rinunciatario: significative aperture mostrano come attraverso le storie “piccole”, che vedono protagoniste le persone più comuni, ci troviamo però di fronte a un cinema che mostra in filigrana un bersaglio tutt'altro che minimo, ossia la fragilità – quando non il fallimento – della promessa di felicità che la società statunitense dei decenni post-bellici vorrebbe continuare ad elargire senza mai mettere in discussione i valori su cui pretende di fondarla.
Mulligan si muove nella complessità di questo contesto autoriale mostrando una notevole capacità di direzione attoriale, sia che nel cast ci siano star ormai conclamate come Gregory Peck, Steve McQueen, Rock Hudson, Tony Curtis, Natalie Wood, o divi emergenti (Perkins, Robert Redford, Richard Gere...), sia che prevalgano anche in posizione di protagonisti attori e attrici normalmente abbinati a ruoli di secondo piano. La sua capacità di piegare alle richieste del ruolo loro assegnato capacità e attitudini, a volte anche nascoste o poco esplorate, nel caso dei nomi più importanti, lo rende sempre in grado di ottenere interpretazioni convincenti e incisive.
In definitiva Il cinema di Robert Mulligan mostra senz'ombra di dubbio come a volte la scarsa attenzione possa portare a non dare il giusto valore a risultati cinematografici che, per autoconsapevolezza e complessiva coerenza di percorso, meriterebbero una conoscenza e un approfondimento sicuramente superiori a quelli di cui sono stati fatti oggetto.