Non è tanto questione di pensiero meridiano, per dirla con Cassano (Franco, ovviamente, non quello a cui state pensando tutti…). In fin dei conti, non si tratta tanto di ricollocare il sud in una centralità del sentire, quanto piuttosto di restare a sud, spiazzati, rivendicando il luogo dell’esserci nell’epoca dell’andare, piantando i piedi per terra nell’era della volatilità virtuale.
La marginalità come valore, il farsi da parte e ritrovare il proprio tempo, non più quello che ci viene dettato dal mondo. La "grazia" cui rimanda Edoardo Winspeare è quella, antichissima, evocata e rivendicata delle nonne in un sud che cercava la pace interiore: la serenità che è "di dio" non perché discende da lui, non perché è dono offerto dall’alto, ma perché ci apparenta a lui, ci rende signori di noi stessi.
Non c’è un nipote nel Salento che non abbia sentito evocare da un anziano questa condizione: stare "in grazia di dio" è il rimando arcaico e anche un po’ pagano di una cultura che cerca la quiete, la serenità assoluta di una armonia col mondo che ci appartiene nella misura in cui noi gli apparteniamo. Non va confusa con una presunta (e un tempo anche reale) religiosità del sud, che infatti nel film di Winspeare vene significativamente rimossa, evitata, di certo non negata, ma ridimensionata sì… Vero: il film si apre con una preghiera nei campi e si chiude con una nenia che culla una vita in arrivo, ma in mezzo c’è un rapporto paritetico dell’uomo con l’esistenza, una dimensione di scambio e conseguenza e convivenza tra mondo e viventi, natura e vita, terra e braccia, che si fatica a concepire una qualche dimensione verticale, di soggezione e dipendenza dall’alto di un divino. Non fosse altro che per la contrapposizione netta con l’altra verticalità, quella parallela, di un sistema di valori meramente economici, che sono la matrice stessa dello stare in disgrazia di queste persone.
Questo è un film superbamente «pre-culturale», nel senso che trascende ogni struttura proprio perché parte dalla fine attuale e vera di ogni cultura che non sia quella naturale – nel senso di innata – di un rapporto prioritario e paritetico con l’esserci dell’uomo nel suo mondo. Il ritorno alla terra avita evocato da Winspeare nel suo film non è un ridursi in miseria, ma un ritrovare la ricchezza appartenuta e dimenticata: nel tempo del Salento… lento… lento… è intrinseco il senso stesso del pezzo di terra "cu lu caseddu" appartenuto ai nonni dei nonni, che sta lì in attesa di un ritorno a lungo tradito.
Winspeare lo racconta con una verità semplice e discreta, che evita mirabilmente l’esposizione antropologica e trova la verità della luce, dei silenzi, della quiete un po’ sonnolenta, dell’ebbrezza di pollini d’ulivo e sole e frinire di cicale nella controra. C’è l’orgoglio e la nobiltà di tutto questo, trasfusi però non mica in una sorta di arcadia moderna à la page (la calata del nordico coi quattrini che vuole comprare la terra vista mare in quota agriturismo slow food è da manuale!), quanto piuttosto in una sorta di tempo arcaico della vita, di antichità del presente che precede ogni attesa e trascura il futuro.
La grazia di dio è esattamente questa, una sana atarassia che si trascina nelle opere e i giorni di un calendario esistenziale eterno e immutabile. Che poi nel film di Winspeare tutto ruoti attorno a un universo muliebre è conseguenza di una storicizzazione ma anche di una squisita idealità: la Svizzera in cui veder emigrare i fratelli e i mariti è stata da sempre (e torna sempre più ad essere) per il Salento il punto di fuga di una prospettiva occlusa che lasciava "giù" donne sospese tra casa, terra e laboratori tessili di una microeconomia industriale ora spazzata dalla macroeconomia globale…
E allora la madre, la nonna, la figlia, la sorella, la nipote diventano il tessuto di una struttura quotidiana che appartiene necessariamente alla linea di una resistenza locale, di una stabilizzazione della vita tra creare, crescere, nutrire, operare, tramandare… Il tempo è la disposizione degli eventi che si dicono nella loro semplicità: nasci e vivi, semini e raccogli, possiedi e scambi. La grazia di Winspeare sta tutta qui, nella capacità di tradurre il senso del presente in una risanata orizzontalità della vita, in un appianarsi dei valori sulla semplicità dell’esistere. Ogni crisi ha le sue scelte, ogni presente ha il suo tempo.