Domenica, 13 agosto 1961, gli occhi dell’America erano puntati sulla capitale della nazione, dove Roger Maris stava per battere gli home run n. 44 e 45 contro i Senators. Lo stesso giorno, senza nessun preavviso, le autorità comuniste della Germania orientale sigillavano il confine tra Berlino Est e Berlino Ovest. Da allora sono passati esattamente sessant’anni. La chiusura dei confini fra le due zone di Berlino, e la conseguente erezione del Muro, sono stati uno dei momenti-cardine della Guerra fredda e del XX secolo in generale, e pare una cosa remota che l’allora ex-capitale, ancora in parte in macerie (soprattutto a est, come ricorda malignamente McNamara/James Cagney in Uno, due, tre! di Billy Wilder) fosse un punto talmente caldo da rischiare di far scoppiare la Terza guerra mondiale.
Sembra un’esagerazione, ma nell’ottobre del 1961, due mesi appena dopo la costruzione del Muro, e un anno esatto prima della Crisi dei missili di Cuba, al Checkpoint Charlie ci fu un episodio da far impallidire al confronto tutti gli stalli messicani dei film di Tarantino messi assieme: due gruppi di carri armati, americani di qua, sovietici di là, si fronteggiarono vis-à-vis fissandosi in cagnesco per un bel po’ di tempo. Pensate alla tensione di quei momenti: sarebbe bastato che uno solo dei carristi presenti si fosse lasciato scappare uno starnuto, e addio mondo, come neanche nel finale del Dottor Stranamore.
L’immaginario visivo di quel periodo, fotografico come cinematografico, è in bianco e nero. In bianco e nero è la celeberrima immagine del VoPo che scavalca il reticolato di filo spinato per defezionare a Ovest; in bianco e nero è la Porta di Brandeburgo seminascosta dal Muro; in bianco e nero sono JFK e Willy Brandt che cercano di vedere da una piattaforma che succede al di là del Muro. In bianco e nero sono i film ispirati a quei luoghi e avvenimenti, anche quando sono a colori.
La spia che venne dal freddo (1965) di Martin Ritt, ad esempio, tratta dal celeberrimo romanzo di John le Carré, che inizia e finisce con due tentativi falliti di oltrepassare il Muro. In bianco e nero è Totò e Peppino divisi a Berlino (1962), che anticipa di tre anni il film di Ritt e di uno il romanzo di Le Carré e che, a una trama ricca di alcune delle più azzeccate trovate del duo di comici napoletani, mette come sfondo ambienti insolitamente plumbei e gelidi. In bianco e nero sembrano anche, nonostante il fatto che siano girati a colori, The Innocent (1993) di John Schlesinger, tratto dal romanzo Lettera a Berlino di Ian McEwan (che fa rivivere il tentativo vero, benché bizzarro, dei Servizi occidentali di scavare un tunnel sotto il Muro per intercettare le linee telefoniche orientali), e Il ponte delle spie (2015) di Steven Spielberg, con l’avvocato Donovan/Tom Hanks infreddolito sotto la neve di Berlino est, spaesato ma non per questo meno determinato a trovare la maniera di riportare alle loro case la spia Rudolf Abel e il pilota Gary Powers.
Il colore appare invece, come un netto ribaltamento, nella seconda parte di Il cielo sopra Berlino (1987) di Wim Wenders, dopo che l’angelo Damiel/Bruno Ganz ha deciso di rinunciare alle ali per diventare umano. Meravigliato dal cambiamento, e sotto lo sguardo sornione e partecipe del tenente Colombo, Damiel vede colorarsi di tinte per lui nuove e inaspettate i murales che coprono la parte occidentale del Muro, e che fino ad allora aveva visto solamente, e noi assieme a lui, in bianco e nero. Di lì a due anni, il Muro sarà destinato a cadere.