Il film è stato in precedenza presentato al Festival di Berlino.
«Qui a Sarajevo esistono sempre due versioni per ogni storia» dice una giornalista al suo intervistato (un professore di urbanistica) mentre parlano di come i monumenti della capitale bosniaca siano cambiati dal 1914 a oggi. L’oggetto del discorso è il centenario dallo scoppio della Prima guerra mondiale il cui casus belli – come ampiamente noto – fu l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo (erede al trono dell’impero d’Austria e Ungheria) da parte del nazionalista serbo Gavrilo Princip, avvenuto nel centro di Sarajevo il 28 giugno del 1914. Death in Sarajevoripercorre un secolo della travagliata storia della Bosnia-Herzegovina – in un giorno solo (il 28 giugno 2014) – raccontando tante storie, tutte diverse e tutte insieme. All’Hotel Europa, un grande albergo della capitale – uno di quelli che ospitò le maggiori personalità in visita alla città per le Olimpiadi invernali del 1984 – mentre fervono i preparativi per la commemorazione dell’attentato, le storie di alcuni clienti, del personale, dei poliziotti addetti alla sicurezza e dei giornalisti presenti nell’edificio si intrecciano in maniera vorticosa.
Tanović torna a girare in patria e decide, ancora una volta di prendere la Storia di petto. Adattando la pièce “Hôtel Europe” di Bernard-Henri Lévyaffronta senza eccedere né nella retorica né nell’autocommiserazione, la Bosnia di oggi. La nazione «di cui tutti si ricordano soltanto quando succede qualcosa di brutto!» come dice sempre la giornalista. Lei che del film pare essere una sorta di narratrice e commentatrice (nella prima inquadratura, che si apre sul suo volto mentre guarda in camera, sembra che il reportage non sia nel film, ma sia il film stesso). E in fondo non è falso ciò che dice a proposito della maniera in cui il mondo conserva la memoria della capitale bosniaca. Sia perché a Sarajevo di cose orrende e spaventose ne sono successe tante (troppe), sia perché dopo la guerra dei Balcani la città delle Olimpiadi dell’84 è divenuta il simbolo della guerra stessa. E insieme lo specchio tanto dell’orrore che alla guerra si associa quanto di una certa cattiva coscienza di chi (le Nazioni Unite e i grandi Paesi dell’occidente) non ha capito sino in fondo le dimensioni di quello che a Sarajevo stava succedendo e che in ogni caso non ha saputo arginare il dilagare dell’orrore. Terra di frontiera, paese di conquista, luogo di transito e di incrocio di culture, Sarajevo si configura quindi come un topos paradigmatico, nel quale tutto quello che succede assume una forma ambigua e dove, appunto, ogni storia, ogni situazione e ogni evento viene raccontato sempre due (o più) volte e dove niente è mai quello che sembra.
E l’Hotel Europa è dunque l’esplicita metafora di tutto questo, è il microcosmo nel quale le cose succedono più in fretta ma dove si consumano lotte, divisioni, piccole guerre, tradimenti, dove si partoriscono ideali e dove prendono corpo la sconfitta, la violenza e i soprusi. Perché a ben vedere la storia di Sarajevo è la storia dell’Europa stessa e il nome dell’albergo (che più manifesto non potrebbe essere in tal senso) è lì a dirci proprio questo. A dirci, come sottolinea anche Lévy, che la nostra storia passa da Sarajevo e a Sarajevo ritorna sempre perché la capitale bosniaca: «era il sogno europeo incarnato. Un sogno che l’Europa stessa, però, ha fatto morire» (Lévy). E la morte infatti prende il sopravvento, anche nel film (sin dal titolo), finendo per cancellare tutto e per assegnare a Sarajevo, ancora una volta, il ruolo di città dannata, di ultimo luogo sulla terra. E se è la storia di questa capitale a essere sinonimo di morte, allora lo è anche la storia di ogni cittadino europeo (e di ogni individuo). Perché come ricorda Susan Sontag (citata nel film) «la storia del Novecento inizia e finisce a Sarajevo», ragione per cui il nostro presente e il nostro futuro sono legati a doppio filo a questa città e alle sue storie. Tutte quante.