Dressed to Kill. Cioè – anche – vestito in modo eccitante. Per sedurre. Per abbattere il buon gusto, squarciare la superficie di un credo perbenista e oltraggiare un occhio abituato all’ipocrisia. Dopo il Watergate, dopo il Vietnam, dopo la New Hollywood, dopo Lo squalo e Guerre stellari, De Palma intercetta i tempi e le voglie che cambiano; e all’alba di un’epoca poco disposta a riconoscere di sé i lati oscuri, convinta che di oscurità l’America ne abbia vista fin troppa, punge lo spettatore sul vivo dei suoi desideri più nascosti e inconfessabili, dandogli ciò che implicitamente lui sta già chiedendo a gran voce. Uno shock, chiaramente, perché di fronte all’io taciuto o rimosso l’identità, come Storia ci insegna, non può che offendersi e indignarsi. Povere donne, povere femministe, poveri gay, poveri cristiani cattolici, tutti feriti, tutti disonorati. Pornografia trash, allora, come da più parti è vidimato. La concretezza dell’astratto prima di 9 settimane e ½? Io direi l’origine della nuova immagine. Quella che oggi stiamo studiando e con la quale facciamo i conti tutti i giorni, in sala, sul divano, sui libri, sui banchi di scuola. Al di là del citazionismo e prima del genere: è anche per merito di Vestito per uccidere e di un’assassina bionda in occhiali da sole e rasoio se nasce il cinema moderno.