Il film più lieve di De Palma, quello che per contrasto ti fa render conto di quanto sia solido il suo cinema. In Mission to Mars le abituali geometrie depalmiane si dissolvono in un'opera che fluttua in assenza di gravità. C'è una felicità ludica nella messa in scena di Mission to Mars che in nessun altro film di De Palma è facile ritrovare. Il gioioso sabotaggio delle dimensioni della messa in scena (dall'incipit sul lancio del razzo giocattolo, ai moduli della NASA che si muovono su Marte, sino al ciondolo astronave di Woody) corrisponde all'avvitarsi delle figure che, in assenza di gravità, ruotano su sé stesse come una sequenza desossiribonucleica fatta di confetti colorati. Terri e Woody che danzano sospesi a mezz'aria sono la smaterializzazione della vertigine che ritorna puntualmente nel cinema depalmniano (vedi il ballo tra Michael ed Elizabeth in Complesso di colpa). Così come la profondità prospettica aperta dagli innesti di filmati e immagini che segnano il suo cinema, qui si liberano in vissuti corali perfettamente coreografati. Sospinto lungo la traiettoria della fantascienza d'agnizione a partire dallo spunto del celebre volto su Marte, fotografato dal Viking nei '70 come una futuristica Veronica, Mission to Mars è un dramma stellare scritto in pieno 2000 e fatalmente posto sul crinale di differenti stagioni della fantascienza. E in fin dei conti resta un corpo filmico con spirito cormaniano e cuore lucasberghiano.