Ogni grande autore americano che ha vissuto gli anni Sessanta ha il proprio Vietnam: Kubrick, Coppola, Stone, Cimino, anche John Wayne. Con Vittime di guerra, uscito grazie al successo di The Untouchables e passato pressoché inosservato, De Palma aggiunge uno sguardo personale raccontando la sua guerra e il suo Vietnam. Mette in scena il vero incidente della collina 192, in cui un gruppo di giovanissimi soldati americani rapì, stuprò e uccise una ragazza vietnamita, Than Thi Oah. L’unico a rifiutarsi fu un soldato (che nel film ha il nome fittizio di Sven Eriksson) che denunciò il fatto, provocando l’arresto e la condanna dei commilitoni. Caratterizzato da una struttura circolare e raccontato in flashback, Vittime di guerra è un film politico, fortemente antimilitarista, pervaso da un umanismo sincero, pudico e talvolta ingenuo. Eriksson è lo stereotipo del soldato morale, colui che lotta per difendere l’inviolabilità della condizione umana in un inferno paludoso, dove la rigidità dei valori non trova spazio e le gesta assumono l’elasticità oscillante del bene e del male. De Palma realizza un cortocircuito paradossale: se lo stupro e la barbarie sono la catarsi, nel qui e ora, dell’immoralità, lo sforzo morale diviene, nella vita dopo la guerra, un incubo costante, un fantasma sempre attuale. In questo circolo vizioso, la sopravvivenza è un gioco di punto di vista e la mdp, sguardo onnisciente che nella lunga scena iniziale penetra nei cunicoli dei Vietcong per poi rimanere sospesa tra suolo e sottosuolo, è incarnazione di questo puzzle morale. Questo è il Vietnam di De Palma: un insieme eterogeneo, altalenante e fin troppo umano di vittime di guerra.