Gianni Amelio arriva alla conferenza stampa de L’intrepido con tutto il cast: accanto a lui Antonio Albanese e i due giovani attori Livia Rossi e Gabriele Rendina, più il co-sceneggiatore Davide Lantieri e il produttore Carlo Degli Esposti.
Il regista calabrese ha le idee chiare: dice di non voler entrare nel merito delle sequenze, quando qualcuno chiede chiarimenti su alcuni momenti del film, e glissa quando gli viene garbatamente ricordato che alla proiezione stampa il suo film è stato accolto dai fischi: «Lo spettatore ha sempre la libertà di giudicare nel modo che ritiene opportuno. Io mi aspetto sempre delle sorprese quando un mio film esce in sala».
Ma ci tiene molto di più a ricordare quali sono gli spunti e i modelli che ha utilizzato in fase di scrittura per costruire L’intrepido: «Volevamo fare un film che si ispirasse al cinema muto. Dopotutto il personaggio di Antonio ha un corpo e una gestualità che ricordano alcuni attori del muto. Sin dall’inizio abbiamo cercato di mettere il film su questo binario. Antonio è uno Charlot della modernità, qualcuno che non ha un vero posto nel mondo e che non sa bene quale sarà l’orizzonte verso il quale si incammina». E in seguito aggiunge: «Mi ha fatto molto piacere che stamane si sentisse evocare Miracolo a Milano parlando de L’intrepido. Non ho inserito di proposito elementi zavattiniani nel mio film, ma Miracolo a Milano è proprio uno dei film della mia vita (…) Credo però che la Milano de L’intrepido somigli di più a quella di un altro mio film ambientato a Milano, che è Colpire al cuore, una città che accompagna le vite di personaggi glaciali, disillusi, bloccati dentro le loro stesse esistenze».
Albanese, dal canto suo, fa i complimenti di rito ad Amelio e spiega come l’Antonio del film in fondo gli somigli molto: «Nei miei film da regista, soprattutto gli ultimi, cerco anch’io di raccontare la stessa Italia che racconta Gianni ne L’intrepido. Solo che io lo faccio con altri toni e un altro stile, molto più paradossale. Di conseguenza mi mancava un personaggio come quello di Antonio, in cui ho incontrato la leggerezza e la voglia di vivere e di andare avanti. Mi ci sono riconosciuto. Del resto anch’io vengo da lì, sono figlio di operai e mentre studiavo per fare l’attore, visto che di denaro non ne avevo molto, ho fatto ogni tipo di lavoro».
E su questa leggerezza che aleggia all’interno del film, dice ancora Amelio: «In tutti i miei lavori, anche quelli più pessimisti, tento di lasciare uno spiraglio di luce. Qui ho voluto che la luce non si intravvedesse soltanto, ma che potesse mostrarsi chiara e intensa». Aspetto, questo, ribadito da Lantieri, che aggiunge: «Mentre preparavamo la sceneggiatura, prima ancora di pensare a Charlot e alla commedia, abbiamo letto, fra gli altri, Se questo è un uomo di Primo Levi. In questo libro c’è un personaggio che nonostante sia rinchiuso nel campo di concentramento si fa la barba tutte le mattine perché non vuole trascurarsi e, dice, non si sa mai cosa può succedere. Abbiamo trasferito questa stessa peculiarità al personaggio di Antonio perché volevamo sottolineare come anche dentro l’inferno che a volte gli uomini sono costretti ad affrontare nelle loro vite può sopravvivere tanta speranza».