Chi sta leggendo queste righe è facile che abbia già avuto modo di conoscere il gruppo femminista ucraino delle Femen. Durante l’ultimo anno non c’è stato settimanale, televisione, rotocalco o quotidiano che non abbia dedicato ampio spazio (soprattutto fotografico) alle rocambolesche e controverse vicende del gruppo di Kiev. L’ingrediente principale di questo successo è semplice: si tratta di mettere in scena delle azioni dimostrative, tanto sensazionali quanto povere di contenuti, che abbiano come obiettivo una generica critica del sistema patriarcale, e di farlo… completamente nude!
Aiutate da un aspetto fisico da modelle e da un furbissimo uso dei media, le Femen sono riuscite a raggiungere un livello di popolarità impensabile per qualunque soggetto che oggigiorno abbia il coraggio di fregiarsi del titolo di femminista: un termine che – ahinoi – è lentamente scivolato dal rango di identità politica a quello di stigma nel linguaggio comune.
La contraddizione di mostrarsi nude a combattere il patriarcato – ovvero di utilizzare uno strumento della propria oppressione con la finalità di denunciare la stessa – è stato già sottolineato da più parti. Molti gruppi femministi hanno criticato ampiamente l’assoluta cancellazione della storia del femminismo da parte del gruppo di Kiev, così come le loro ambigue posizioni di vittimizzazione di prostitute e sex workers, nonché una notevole leggerezza nel trattare il tema del corpo delle donne nei paesi islamici (si veda il caso Amina). Tuttavia il fenomeno Femen pare avere sotto qualcosa di più interessante di questo, ed è quello che tenta di sviscerare Kitty Green nel suo interessantissimo e per certi versi sorprendente documentario Ukraina ne Bordel (Ukraine Is Not A Brothel), passato fuori concorso al Lido.
Kitty Green, giovanissima regista australiana che ha seguito le azioni, ormai diventate transnazionali, del gruppo femminista ucraino, bypassa (nel bene e nel male) la discussione sulla forma del linguaggio politico assunto dalle Femen. Le guarda invece dall’interno, cerca di capirne i dispositivi di funzionamento e scopre diversi elementi che ribaltano completamente il quadro.
Pochi sanno, ad esempio, che le Femen sono capeggiate da un uomo, Victor, che compare nel film in un’intervista incredibilmente sincera e che rende manifesto, in un modo a un tempo naïf quanto efficace, le tante contraddizioni che attraversano quell’esperienza. Il patriarcato che si voleva combattere risorge al cuore delle relazioni del gruppo. Sasha, una delle leader, ammette candidamente che quando si è abituati a essere schiavi è difficile comportarsi diversamente.
Da gruppo di furbette che sono diventate superstar utilizzando il proprio corpo e qualche slogan generico, le Femen diventano in questo film un’espressione e un sintomo proprio di quello che vogliono combattere. La contraddizione tra la forma e il contenuto delle loro azioni passa in secondo piano e subisce un ulteriore rivolgimento meta-riflessivo: perché è proprio la loro presenza sulle copertine di mezza Europa che mostra come il patriarcato stia nella forma del loro successo e non nella modalità o nei contenuti delle loro azioni.
Il problema non è quanto le Femen siano contraddittorie, ma quanto il loro successo segua una logica coerente. Insomma, ancora una volta il cinema si dimostra capace di far vedere come in questione non sia l’oggetto che viene guardato ma l’occhio di chi lo guarda. E forse – ci dice Kitty Green – per fare questo era davvero necessario spogliarsi.