Ogni tanto anche il cinema americano esce dalle fantasmagorie digital-postmoderne e si ricorda che la gente, negli Stati Uniti come altrove, lavora, fatica e si sbatte, sforzandosi di tenere in linea di galleggiamento esistenze spesso prossime a deragliare.
Ambientato nel profondo Sud degli Stati Uniti, il film mette in scena una galleria di personaggi sfregiati da un passato rovinoso, scandito dall’alcol e dalle risse nei bar, dagli scontri con la polizia e dalle liti familiari. Un microcosmo disperato, la cui immagine nasce dall’intenzione del regista di rievocare e aggiornare l’universo della frontiera americana, privandolo però dell’epopea che lo rendeva accattivante e leggendario.
A sopravvivere sullo schermo è dunque un mondo di losers senza eroismo, corrosi dalle fatiche del lavoro manuale e dalle tante, troppe bottiglie scolate a fine giornata. Joe appartiene alla vasta categoria dei film-presepe: ottimo nel ritrarre un mondo credibile e nel popolarlo di figure dotate di spessore, si perde un po’ quando si tratta di costruire una storia in grado di condensare con efficacia i presupposti di partenza.
Il rapporto centrale del film – quello tra un uomo dal passato burrascoso e un ragazzino costretto a sopportare un padre alcolizzato e violento – si incardina molto, troppo presto sui binari di una relazione affettiva che colma i bisogni di paternità dell’uno e di protezione dell’altro. Da lì in poi la storia procede senza sussulti, dritta e prevedibile come spesso (e purtroppo) sanno essere i racconti edificanti.
La dirittura morale - con tanto di epilogo esemplare, nel segno del sacrificio e dell’espiazione delle proprie colpe - come antidoto narrativo ad un mondo che pullula di vite sghembe e accidentate.