La ricetta giusta per avere tante nomination agli Oscar? La conosce bene Tom Hooper, regista che da anni è un beniamino dell’Academy. Gli ingredienti, dopo Il discorso del re e Les misérables, li ripropone in The Danish Girl: un soggetto dai contenuti importanti, un finale struggente, buoni sentimenti, confezione strutturata ad hoc per piacere, un attore ormai di moda e tanto bravino a fare una serie infinita di smorfiette.
The Danish Girl è tutto qui: un’operazione furba e piaciona, perfetta per chi vuol darsi un tono frequentando cineforum e sale d’essai, e per un pubblico alla ricerca di sentimentalismi a buon mercato.
Eppure la storia (vera) di partenza avrebbe richiesto ben più coraggio di quanto dimostrato dal regista britannico: si parla della vita di Einar Wegener, un pittore che, nella Copenaghen degli anni Venti, inizia a posare per i dipinti della moglie con abiti da donna. Sempre più a suo agio nelle nuove vesti, porterà alla luce quel lato femminile che ha coltivato dentro di sé fin da bambino e diventerà la prima persona della storia a sottoporsi a un intervento chirurgico per cambiare sesso.
Nonostante il complesso tema introduttivo, Hooper sceglie sempre la strada più semplice, finendo per banalizzare la questione del gender e optando per una serie di “colpi di scena” sempre telefonati, studiati a tavolino, a dir poco artificiosi. E mentre il regista si perde dietro a immagini da cartolina, la retorica fa capolino costantemente, fino a raggiungere l’apice in un finale pomposo e melodrammatico oltre misura.
Già sopravvalutata, inoltre, la prova di Redmayne, mentre più efficace è Alicia Vikander nei panni della moglie del protagonista. I limiti sono questi, sono tanti, sono troppi, ma il film piacerà a (quasi) tutti, avrà grandi recensioni negli Stati Uniti e otterrà numerosi riconoscimenti.
D’altronde, è costruito apposta per questo.