Louise Banks (la proteiforme Amy Adams, presente con almeno due film a Venezia 73) si accinge a tenere una lezione sulle peculiarità della lingua portoghese, ma l'aula è semivuota, e anche i pochi allievi presenti sono distratti da una notizia sconvolgente: sono arrivati sulla Terra, senza impatto, perché fermatisi qualche metro prima, dodici oggetti lunghi più o meno 400 metri (che non è esattamente poco), levigati come gigantesche cariossidi, distribuiti geograficamente secondo una ratio non è chiaramente né univocamente decifrabile: USA, Russia, Cina, Sierra Leone, Venezuela...
L'automatismo dei poteri forti in ognuno degli stati colpiti è quello di reagire come se si trattasse di una possibile aggressione: è per questo che le loro intelligence fanno rete, ed è in questo contesto di emergenza che Louise viene contattata dal colonnello Weber (Forest Whitaker), affinché tenti, in quanto linguista già sotto contratto con l'esercito americano, di entrare in comunicazione con gli eptapodi, gli esseri a simmetria radiale che stanno in un’“atmosfera protetta” all'interno di questi oggetti non identificabili dalle caratteristiche chimiche e fisiche incognite; e soprattutto di capire le loro intenzioni.
Arrival, decimo lungometraggio di Denis Villeneuve, si inserisce in un filone della fantascienza che in fondo risale a Incontri ravvicinati del terzo tipo di Spielberg (1977), e, d'altro canto, ha non pochi punti in comune con Interstellar di Nolan (2014), pur essendo, nelle teorie scientifiche adottate, meno confuso di quest'ultimo: forse anche perché è tratto (da Eric Heisserer, già sceneggiatore di The Thing, quello del 2011, ovvero il prequel del film omonimo di Carpenter), da un pluripremiato e dottissimo racconto di Ted Chiang, The Story of Your Life. Racconto che, a dispetto del titolo, contiene tutti gli elementi che ritroviamo nel film di Villeneuve, innanzitutto la fiducia negli strumenti della ricerca linguistica, e, soprattutto, l'idea di assecondare l'ipotesi di Sapir-Whorf ovvero che le strutture di una lingua condizionano il pensiero e la Weltanschauung dei singoli locutori (con un ricasco considerevole anche sui comportamenti collettivi) e possono essere quindi, in un caso come questo, uno strumento fondamentale di conoscenza. Non a caso, il matematico che partecipa alla missione, Ian Donnelly (Jeremy Renner), si dichiara inizialmente scettico, salvo poi progressivamente ricredersi, quando Louise riesce a mappare l’alfabeto scritto (sarebbe meglio dire spruzzata, o drippata) degli eptapodi, capendo che si tratta di un modello semasiografico (legato ai concetti e non ai suoni).
Infatti, se tra i vari punti di continuità con la filmografia precedente dell'autore canadese abbiamo l'idea del prelievo coatto della protagonista in virtù di una sua abilità, come già avveniva in Sicario, in questo caso l'opposizione femminile/maschile, senza calcare eccessivamente la mano sul fronte simbolico, è decisamente a favore del femminile, del logos contro la techné, così come la circolarità e l'inclusione hanno la meglio sulla linearità e sull'esclusione. Villeneuve recupera anche, in una modalità atipica, quasi neutralizzata, le strutture del mélo che fecero la fortuna di Incendies (2010). Così, in Arrival, troviamo anche, esposto in un prologo dal sapore vagamente malickiano, e poi in una serie di flash-back, o forse, meglio, déjà-vu, il racconto di Louise alla figlia, quello che dà il titolo alla novella di Chiang: è come, però, se la struttura del melodramma fosse esplosa e raccolta, a brandelli, lungo una traccia circolare, esattamente come i pittogrammi proiettati dagli eptapodi nel medium lattiginoso in cui sono sospesi. Brandelli che fanno meno male del solito, perché lungo una circonferenza, ogni punto di partenza è anche punto di arrivo.