«Innumerable force of Spirits armed,
That durst dislike his reign, and, me preferring,
His utmost power with adverse power opposed
In dubious battle on the plains of Heaven,
And shook His throne».
Paradise Lost, John Milton
Nella prima metà degli anni '30 – gli anni della Grande Depressione – nei campi di mele della California, 900 lavoratori stagionali insorsero contro i proprietari terrieri dopo essere stati pagati solo una frazione dei compensi concordati, convinti da un nuovo arrivato, membro del "Partito" (comunista, ovviamente, anche se mai esplicitato direttamente) e dal suo "coraggio di non sottomettersi mai", a rischiare tutto scioperando per il riconoscimento dei propri diritti fondamentali.
Nel 1936 John Steinbeck decise di rendere immortale questa lotta raccontandola nel suo “La battaglia”, testo meno noto di un'ideale trilogia che comprende “Uomini e topi” e “Furore”, definito all'epoca dal New York Times come «il miglior romanzo sul lavoro e sugli scioperi ad essere stato pubblicato nella nostra attuale situazione di tensione economica e sociale». Un tema che oggi, specialmente in America, sembra tornato ad essere estremamente pertinente, o almeno è questo quello che emerge fin dai primi minuti di In Dubious Battle di James Franco, un film che da subito fa capire di voler mettere il testo originale e le sue tematiche in primissimo piano: in questo senso la regia dell'attore californiano, che da sempre ha dimostrato di essere estremamente capace nel riuscire ad individuare il modo giusto per adattare la messa in scena alle proprie storie e ai propri personaggi – dagli split screen asincroni di As I Lay Dying alla discesa negli abissi più oscuri dell'umanità con Child of God, fino ai repentini cambi stilistici di The Sound and the Fury – è infatti decisamente più classica e rigorosa rispetto al solito, quasi a non voler rischiare di non riuscire a veicolare nel modo più diretto possibile il proprio messaggio, dimostrandosi al contempo estremamente rispettosa nei confronti del libro di Steinbeck.
Ed è proprio Franco stesso (attore, in questo caso) a portare lo spettatore dentro a questa lotta per i diritti fondamentali, con i suoi movimenti all'interno della storia e le sue interazioni con gli altri personaggi per convincerli ad uno ad uno della necessità di abbandonare il proprio modo di agire individualista, rinunciando a pensare esclusivamente a se stessi, per iniziare a ragionare e a lottare come una comunità. In questo, Franco dimostra di essere assolutamente nella parte, orchestrando con i tempi giusti tutta una serie di inganni e sotterfugi messi in piedi per far nascere la rivolta, rendendo lo spettatore testimone e complice (e quindi partecipe) del progressivo coinvolgimento e convincimento dei vari raccoglitori di mele.
I problemi per i braccianti in sciopero (e per il film) iniziano quando la rivolta entra effettivamente nel vivo: l’interpretazione di Franco si fa meno convincente, incapace di persuadere i personaggi (e gli spettatori) a rimanere uniti per andare all’assalto; sempre meno convinti i raccoglitori, sempre meno convincenti le azioni e le motivazioni che portano avanti il racconto, sempre più distante lo spettatore dalla lotta in fieri. Anche in questo però, tutto sommato, il film rimane molto legato a quello che sta raccontando: la storia di un tentativo fallito di cambiare le cose, che nonostante tutto rappresenta un primo passo verso una grande conquista.
Ed è sicuramente interessante pensare in questo senso anche a quest’idea di cinema e a questa tipologia di film, che difficilmente sarà mai in grado di cambiare effettivamente le cose o di spingere qualcuno ad agire per il bene comune; eppure, allo stesso tempo, sarà sempre capace di mantenere in vita chi ha compiuto dei passi fondamentali, grazie alla sola forza imperitura della narrazione.