“Su di un cerchio ogni punto d’inizio può anche essere un punto di fine”. Così diceva Eraclito (detto "l'oscuro") a cavallo tra il sesto e il quinto secolo avanti Cristo. E nella 74ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia, è dall’inizio che il tema della fine si impone in quasi tutte le opere presentate. Compresa la fine del mondo così come lo conosciamo, al centro di Downsizing del caustico Alexander Payne.
La natura, o forse ancora meglio la sua immagine, l’ombra di questi alberi, piantati già grandi nel parco del cinema Giardino, ci interrogano. E noi dobbiamo trovare una risposta convincente. Prima di subito.
L’ansia per ciò che potrebbe accadere ci angustia, anche e soprattutto in una visione religiosa e teleologica del mondo, come in First Reformed di Paul Schrader, che si interroga su ciò che attende l’uomo se non la smetterà di interessarsi soltanto al profitto.
Ma la Mostra offre anche qualche motivo per essere ottimisti. Come la folla per il restauro di Rosita di Lubitsch: 1400 persone in Darsena per un film del 1923 non ce le saremmo mai aspettate. E forse nemmeno Paolo Baratta, presidente della Biennale, e Alberto Barbera, direttore della Mostra, che, davanti ad una sala strapiena, riescono a fare una presentazione fuori dai canoni, felice e sentita come raramente capita di ascoltare.
Del tutto rinnovata anche scenograficamente, Venezia 74 si presenta già sul lato mare profondamente differente dalle edizioni che l’hanno preceduta.
Un porticato ligneo, leggero ed elegante permette al critico di riposare, sotto il sol-LEONE (è il caso di dirlo), le palpebre provate da tante, troppe proiezioni.
E che dire poi della facciata vera e propria del Palazzo del Cinema? Dopo tanti anni di “cuoricioni” gonfi e aggettanti, ecco tornare un po’ di sano ed elegante minimalismo.
Una costante invece è il pubblico a caccia di star, che pare essere stabilmente tornato al Lido.
E se anche qui come altrove, in tanti festival del cinema, ci si è resi conto che la “bellezza” non può fermarsi all’uscita della sala cinematografica (siamo esseri umani, tutto ciò che ci circonda influenza il nostro giudizio) ecco spuntare, a contrappunto delle emergenze architettoniche più significative, piante e fiori, in un tripudio di luci e colori
Una città del cinema prende forma. E i suoi elementi crescono gli uni dagli altri, gli uni sugli altri, come nel caso della sala Giardino, inaugurata nel 2016, e che soltanto oggi, con la creazione della nuova piazza davanti al Casino, acquista una dimensione più interessante e compiuta.
Ma, ancora una volta, il cerchio non si può chiudere senza tornare all’inizio (e quindi alla fine) con la composizione apparentemente casuale della crew del film israeliano Ga’agua – Longing di Savi Gabizon in sala Perla. Regista e interpreti dirigono il proprio sguardo in direzioni differenti, e il risultato è simile a un quadro ottocentesco. Anche qui è la fine, la morte di un figlio mai conosciuto, a dettare le regole. Ariel, il personaggio principale del film, non avrebbe mai pensato che la sua esistenza potesse essere così sconvolta dalla vita (o meglio dalla morte) di un altro essere umano. Ed è esattamente la tesi che si voleva dimostrare. Vita e morte in un cerchio indissolubile. L’una giustificata dall’altra. Ogni inizio reso possibile soltanto dalla propria fine.